FUNDUS SUCCONIANUS
Una terra.
Come anticipato nella pagina MONTE ZUCCONE, è la presenza di questo fundus Succonianus sul territorio piacentino, iscritto nella Tavola Alimentaria Veleiate (TAV), ad incoraggiarmi nella ricerca di un luogo diverso dalla montagna dell’alta Val di Taro come possibile origine toponomastica del nostro cognome, anche se non sarà una cosa facile.
Lo straordinario documento epigrafico bronzeo del II sec. d.C., fonte ricchissima di informazioni storiche, geografiche, economiche, sociali, toponomastiche ed onomastiche, rappresenta una specie di estratto catastale delle aziende agricole. Nella maggior parte dei casi esse ricevettero il loro nome da quello personale del primo proprietario o di quello che le possedeva al momento di uno dei tre censimenti agrari augustei (I sec a.c. – I sec. d.c.), e si trovavano prevalentemente nella zona collinare e montana dell’attuale provincia di Piacenza e di parte di quelle di Parma, Pavia e Genova. Inoltre alcuni fondi citati nella TAV erano ubicati nei distretti degli antichi municipia di pianura limitrofi a quello di Veleia, soprattutto Placentia e Parma.
Naturalmente non ho intenzione di proporre l’ipotesi che il cognome Zucconi (considerabile come un analogo del nomen latino Succonius) si sia conservato in una linea famigliare ininterrotta fin dai tempi della prima colonizzazione romana della pianura padana (III sec. a.c.). Non nego che sarebbe suggestivo immaginarlo, dato che tale eventualità potrebbe essersi verificata per alcune famiglie ma, ovviamente, senza documentazione non è possibile provarlo irrefutabilmente per ogni singolo caso. Tuttavia per certe ubicazioni fondiarie particolarmente isolate e di modesto valore, soprattutto in collina e montagna, la continuità di possesso attraverso le generazioni è frequente (nel caso della mia famiglia allargata, ad esempio, il possesso ininterrotto del fondo su cui si insediò nel sedicesimo secolo è durato fino a pochi decenni fa).
In passato era frequente che una famiglia nobile tentasse di dare lustro e legittimità al proprio blasone commissionando ricerche genealogiche tese a certificare una discendenza diretta da una qualche gens romana o da un qualche personaggio storico, ma si tratta sempre di invenzioni più o meno fantasiose che cercavano di soddisfare le finalità politiche e narcisistiche dei committenti. Un caso forse emblematico è quello dei Silighini di Sogliano al Rubicone (RN), in val Marecchia, che si dicono discendenti di Silla, una parte dei discendenti del quale sembra avesse possedimenti in questa zona: se da un lato è vero che le invasioni barbariche abbiano causato la distruzione di buona parte degli archivi del catasto dei terreni agricoli e determinato un dimezzamento della popolazione italica, dall’altro è parimenti vero che i regni nati da quelle invasioni, in alcuni casi, abbiano conservato l’impianto amministrativo romano e perfino migliorato le condizioni di vita della popolazione rispetto a quelle in cui viveva durante l’ultima fase dell’impero romano. Dunque tale famiglia, anche in virtù del suo censo nobiliare, approfittando del fatto che quella zona rimase nell’esarcato bizantino per un paio di secoli, potrebbe essersi avvantaggiata di una certa stabilità politico-amministrativa ed aver conservato le sue proprietà attraverso i secoli e le dominazioni. Mancano tuttavia documenti e prove archeologiche a sostegno, perciò rimane una pura ipotesi.
Pertanto, pur non volendo sostenere un’impossibile continuità genealogica come nel caso dei Silighini e ritenendo più probabili le varie eventualità esposte nella pagina IPOTESI, penso che qui sia comunque lecito proporre la seguente ipotesi di lavoro:
il toponimo volgarizzato di una località del piacentino, derivato dal nome latino di questo fondo attraverso un’evoluzione linguistica (Succonianus > Succoniis > Zucconi), potrebbe aver cominciato ad un certo punto ad identificare, o come nome collettivo apposto o come soprannome, uno o più nuclei famigliari ivi residenti stabilmente fino al momento in cui si fosse fissato come cognome su almeno uno di quei nuclei, oppure su singoli individui da quella località emigrati ed in seguito caratterizzati, nell’ambito della comunità di arrivo, da quel toponimo di provenienza (causa abbastanza comune di formazione cognominale).
Prima di procedere con l’esposizione di questa ipotesi di derivazione toponomastica devo premettere che, mentre per molti altri prediali presenti nella TAV si possono abbastanza facilmente individuare i toponimi attuali derivati direttamente da quelli, di questo sembra proprio non esservi più traccia, almeno nell’esatto luogo in cui è più probabile che dovesse trovarsi. Non esiste infatti, in quell’esatto luogo, un toponimo come “Succoniano” o “Zucconiano” o in altra forma, anche storpiata dalla trascrizione in italiano di una pronuncia dialettale piacentina, direttamente derivante dal fundus Succonianus quali potrebbero essere:
– un ipotetico *Zicchignano da un dialettale Sichignàn (< *Sucugnàn?), come suggeritomi dal professor Giorgio Petracco, e come forse testimoniato in provincia di Como da Schignano (la prima -i-, essendo atona, sovente cade: in comasco Schignàn), ed in provincia di Prato da Schignano Vaiano;
– oppure lo scomparso Socognano, da dial. Sucugnàn < Succuniano < Succunianus, fondo collocato da due atti del 981 e del 1252 in un luogo imprecisato (o che comunque non sono ancora riuscito a localizzare) tra Pievequinta (FC) e Pievesestina (FC);
– od ancora gli esistenti Scogno (VA) e Scogna (SP), anche se, questi ultimi, sono più probabilmente derivanti da dial. Scògn < lat. ex cuneo (cuneus = cuneo, punta accuminata) che, ad esempio, in dialetto napoletano è l’attrezzo chiamato correggiato oppure indica il terreno scognato, cioè dissodato:
“…
Scugna: termine in disuso. Si indicava un periodo dell’anno, in primavera, in cui si dissodava il terreno. Dal latino “excuneare” (rompere e lavorare il terreno).Scugnàre: sconnettere, tirarsene fuori, non impicciarsene. Dal latino “dis cuneus”, oppure da “dis cunno” (tirare fuori dalla vagina). La mia fantasia mi riporta al napoletano “scugnizzo” (ragazzo di strada, quindi abbandonato, scacciato)…”
cit. dal sito “Dialetto di Tarsia“
ma potrebbero anche essere l’esito (meno probabile) di una caduta della -u- atona da un ipotetico *Sucògn > Scògn. Nel caso di Scogna (SP) (frazione di Sesta Godano, qui collocata) infatti, la forma più antica del toponimo, testimoniata nell’opera del 1537 “Castigatissimi annali“, di Agostino Giustiniano, Vescovo di Nebio, Genova, è Socogna.
Le varie località sparse sia in territorio piacentino sia parmense (dove la concentrazione è massima, vd. un elenco in LUOGHI) che si chiamano Zucconi, proprio perché non presentano mai la desinenza prediale in -ano e nemmeno la morfologia tipica di una forma dialettale o volgare antica (la conservatività del dialetto rispetto ai toponimi antichi è notevole e riscontrabile nella maggior parte dei casi), in realtà credo siano tutte derivate:
– o da caratteristiche geomorfologiche locali (ad esempio sommità di collinette prive di vegetazione > vd. il verbo zucconare);
– o da eponimìe dovute a famiglie che, portando il nostro cognome già consolidato e possibilmente a sua volta derivato proprio da identico toponimo (magari nel frattempo scomparso) della località di provenienza, si siano insediate in dette località nel corso di secoli relativamente recenti e per un tempo abbastanza lungo da riuscire a battezzarle, come è avvenuto nel caso specifico della mia famiglia con Case Zucconi di Piozzano (PC) nel XVI secolo (contro questa mia convinzione potrebbe esserci una sola eccezione, di cui dirò più avanti).
L’assenza del suffisso in -ano nei toponimi “Zucconi” attuali potrebbe però essere anche dipesa da traduzioni, in volgare prima ed in italiano poi, di un locativo latino che nel corso dei secoli avesse sostituito il prediale originario, perdendo così il suffisso –anus: un Succonis (< Succoniis < Succonianus) utilizzato al posto di quello e con medesimo significato.
Tuttavia occore ribadire che la localizzazione di ciascuno dei toponimi “zucconiani” attuali è incompatibile con la posizione che, a seguito di un’analisi approfondita, è logico ipotizzare per il toponimo presente nella TAV.
Per arrivare a formulare un’ipotesi, credo sia giunto il momento di scrivere per intero il breve testo estrapolato dalla TAV (acronimo con cui d’ora in poi indicherò la Tavola Alimentaria Veleiate), in cui il fundus Succonianus viene citato seguendo una formula che si ripete uguale per tutti i fondi, insieme ad un altro fundus, al pagus di appartenenza, ai nomi di due proprietari confinanti (oltre a ciò, i confini di ogni singolo fondo potevano essere identificati anche riportando l’eventuale presenza di una strada pubblica), al suo valore ed alla relativa decima in sesterzi:
obligatio 31 / [V, 55-100] Cornelia Severa prof(essa) est…/…item fund(os) Scrofulanum et Succonianum [V,90] in / Placentino pag(o) Minervio, adf(inibus) Cassis fratrib(us) <et> L(ucio) Labinco, qu(os) prof(essa) / est (sestertium) CLXXX (milibus): in (sestertium) XIIX (milia)…/…
ipoteca 31 / [V, 55-100] Cornelia Severa ha dichiarato…/…e pure i fondi Scrofulano e Succoniano [V,90] – che si trovano nel distretto Minervio del territorio piacentino e confinano con le proprietà dei fratelli Cassi e di Lucio Labinco, che essa ha dichiarato / per un valore di 180.000 sesterzi: riceve 18.000 sesterzi; …/… (trad. prof. Nicola Criniti).
Come si può constatare le informazioni non sono molte, il testo contiene abbreviazioni e sottintende le parole che il curatore della traduzione ha inserito nelle parentesi, ma alcune cose è possibile dirle se si analizza il testo voce per voce: (per chi volesse approfondire alcuni temi riguardanti più in generale la TAV, ma che possono aiutare a capire come arrivo a formulare la mia ipotesi, può leggere qui)
Membro di una delle gentes più antiche ed importanti di Roma, di censo senatoriale ed i cui antenati avevano combattuto contro Annibale anche nei pressi di Piacenza, è una dei proprietari più ricchi di tutta la TAV. Fa eseguire l’iscrizione dell’elenco delle proprietà da due suoi schiavi che amministravano il suo patrimonio: Primigenio per il territorio veleiate e Zosimo per quello piacentino (*e parmense, suppongo). In un articolo del 2018, “I pagi veleiati e piacentini nella bassa Val Trebbia e nelle valli della Luretta e del Tidone” pubblicato sul Bollettino storico Parmense, Giorgio Petracco tratta approfonditamente il tema.
# Petracco: Si sa che possedeva (registrato in capo ad un Lucio Cornelio Severo) un grande saltus (alpeggio, pascolo), il Blaesiola, sui due lati dell’Aveto, parte in territorio veleiate, parte in quello di Libarna, più altri fondi nei pagi Bagienno, Domizio e Ambitrebio del territorio veleiate. Inoltre altri beni in molti diversi pagi del territorio piacentino, fra cui il Minervio, e nel Mercuriale parmense, tutti in pianura. Questa frammentazione era funzionale per raccogliere le pecore di molti proprietari del piacentino, unirle alle sue, e portarle ad alpeggiare nei suoi possedimenti montani, ovviamente facendosi pagare (cit. Petracco).
Questo è il fondo citato insieme al Succoniano in modo tale da far ragionevolmente ritenere che fossero molto vicini, se non addirittura confinanti. Lo dimostra il fatto che per i due fondi vengano indicati solo due proprietari adfines (i fratelli Cassi e Lucio Labinco), e non quattro, come sarebbe avvenuto e si fosse trattato di fondi tra loro separati e lontani. Questa ipotesi di conterminalità viene confermata per converso da almeno un altro caso dove, per due o tre fondi dello stesso proprietario, vengono citati quattro confinanti (permettendo così di escludere eventuali, ma improbabili, inaccuratezze od omissioni dei redattori del testo bronzeo), come riportato dal professor Petracco in I pagi veleiati e piacentini nella bassa Val Trebbia e nelle valli della Luretta e del Tidone:
“La prima proprietà denunciata nella dichiarazione di Volumnio Epafrodito è il fundus Metilianus Lucilianus Anneianus cum casis et silvis et meridibus et debelis del valore di 50.000 sesterzi. L’ubicazione è nel pago Ambitrebio e vengono indicati ben quattro confinanti (la regola ne chiederebbe due), fra cui Cornelia Severa, Vibio Severo e Lucilio Collino. Tutti e tre questi proprietari hanno dei fondi in Ambitrebio sulla destra del Trebbia, ma, mentre Cornelia Severa ha le sue proprietà vicino al confine con il Vercellense, gli altri due le hanno nella zona di fronte a Travo. È quindi da ritenere che si tratti di una proprietà composta da più fondi non contermini acquistati con un unico atto dal precedente proprietario.” (grassetto mio)
Individuare almeno questo fondo in un toponimo attuale significherebbe capire dove si trovasse anche l’altro ed è abbastanza plausibile pensare che si tratti di Scrivellano, (dial. Scriviàn o Scrivlàn) sede di un castello sito in comune di Travo (PC).
Credo sia possibile affermarlo con una certa sicurezza alla luce di un documento del XIII sec., gli Annales Placentini del notaio piacentino Giovanni Codagnello (anno 1234, pag. 114 riga 12-13 dell’edizione dell’Holder-Egger 1901), nel quale viene citato col nome di Scrovellano secondo l’Artocchini (“Castelli del Piacentino“, Carmen Artocchini – ed. UTEP, 1967), con la O al posto dell’attuale I, o Screvelano secondo il prof. Petracco, con la E al posto della I ed una L sola, a testimoniare in entrambe i casi una forma più vicina all’originale latino. Devo tuttavia rilevare che nell’edizione dell’Holder-Egger del 1901 si legge un *Serevolano che forse è un refuso per Screvolano, (come si legge in un’opera del 1735 “La Galeria Dell’Onore”, di Giorgio Viviano Marchesi, per i tipi dei F.lli Marozzi in Forlì, parte seconda pag. 224 linea 31, ed in un’altra opera del 1717 “Italia Sacra“, di Ferdinando Ughello, per i tipi di Sebastiano Coletti, Venezia, tomo secondo pag. 209 linea 23 colonna sinistra) creandomi un dubbio che permarrà finché non avrò modo di vedere la pergamena originale:
“…
His ita gestis turba magna militie populi Placentie et Cremone ultra Treviam (il fiume Trebbia) equitaverunt, villam quoque de Stati (Statto) et Serevolani (Scrivellano) et Pigazani (Pigazzano) conbuserunt, castrum etiam expugnaverunt…”
E secondo il prof. Petracco
# Petracco: “Scrivellano (Travo) (XIII sec. Screvelano) situato a est di Pigazzano, corrisponde probabilmente al fundus Scrofulanus (TAV V, 89) di Cornelia Severa, appartenente al pago Minervio del territorio di Piacenza. L’ipotesi, già avanzata dall’Olivieri su basi esclusivamente linguistiche, è senz’altro valida. Per arrivare da Scrofulanum a Scrivellano la F si sonorizza passando a V e il suffisso –ulo viene sostituito da -ello. Topograficamente Scrivellano può essere già oltre il confine dell’Ambitrebio e anche la rarità del gentilizio parla a favore della corrispondenza”
(Struttura delle dichiarazioni ed evoluzione del territorio e della proprietà fondiaria nella Tavola di Veleia, di Giorgio Petracco, Giulia Petracco Sicardi).
# Petracco: “Due importanti fondi di Cornelia Severa, lo Scrofulanus e il Succonianus, del valore complessivo di 180.000 sesterzi, erano situati nel pago Minervio del territorio di Piacenza. In questo caso la loro posizione sulla sinistra del Trebbia, in quel pedecolle piacentino che era zona d’insediamento privilegiato delle ville romane, è segnalata dalla corrispondenza dello Scrofulanus con Scrivellano.17 Per arrivare a Scrivellano da Scrofulanus, che non ha alla base un gentilizio, bensì il cognomen Scrofa, la f si sonorizza passando a v e il suffisso –ulo viene sostituito da –ello. Scrivellano è facilmente raggiungibile dall’area dei fondi di Cornelia Severa in Ambitrebio, da cui dista non più di tre chilometri…
… Uno di questi fondi era il fundus Moschianus, dal raro gentilizio Moschius, situato nel Vercellense, del valore di 48.000 sesterzi e confinante con una proprietà di Publio Albio Secondo. Esso può essere riconosciuto nel nome di un piccolo rivo situato poco a sud di Ancarano, il rio Moscolano. *Mosculanus è infatti una variante di Moschianus con l’aggiunta del suffi sso –ulo, così come Scrofulanus lo è di *Scrofanus.18
17 Allo stesso pago Minervio doveva appartenere anche la vicina località di Visignano, dove è stata rinvenuta la stele funeraria dei Coelii.
18 E infatti in Italia sono segnalati dei fondi Scrofianus e Scrofanus (W. Schulze, Zur Geschichte Lateinischer Eigenname, Berlin-Zurich-Dublin, Weidmann 1966, p. 370).(I pagi veleiati e piacentini nella bassa Val Trebbia e nelle valli della Luretta e del Tidone, di Giorgio Petracco)
Scrivellano, come toponimo italiano, resta un unicum a cui fanno da parziale riscontro Scrofiano (SI) e Sacrofano (Rm) (citati anche nel precedente articolo di Petracco alla nota 18 rispettivamente come Scrofianus e Scrofanus), del primo dei quali così si spiega l’origine in “DIZIONARIO TOPONOMASTICO DI SINALUNGA“, a cura di Emanuele Grieco per Quaderni Sinalunghesi, 2013:
“SCROFIANO Frazione di Sinalunga; un tempo, fino al 1778, fu comune autonomo. Alcune ipotesi sull’etimologia:
1. Forse da un antico nome personale, Scrofianu, Scrofana, Scrofa431.
2. “L’abate giureconsulto Francesco Dini indica una provenienza longobarda del nome”432.
3. Secondo la classificazione toponomastica di Silvio Pieri, alcuni nomi locali derivano da nomi di animali. È una situazione frequente anche nella toponomastica italiana, toscana, senese e di Sinalunga. Forse il nome della frazione deriva dal latino scrofa, scrofa, la femmina del maiale, forse dal greco gromphas, da una radice indo-germanica col senso di scavare. Era una consolidata tradizione dei Longobardi allevare maiali. In uno stemma del XVI secolo del comune di Scrofiano vi è disegnato un maiale; ma questo potrebbe essere un caso di paretimologia, sia essa popolare o colta. Segnaliamo, comunque, che esiste il toponimo Scrofeta, una contrada ad Avellino, citata già in un documento del 1063, e il cui nome è spiegato come uno zootoponimo, da mettere in relazione all’allevamento dei maiali. In origine quella zona irpina era prevalentemente boscosa, ricca quindi di querce che producevano grande abbondanza di ghiande, l’alimento principale di maiali e cinghiali433. C’è da notare però che in Scrofeta il suffisso eto/eta, dal latino -etum, fa pensare ad un nome collettivo, mentre in Scrofiano il suffisso -ano fa propendere per una formazione prediale, cioè l’indicazione del nome dell’antico proprietario del fondo o del luogo. Aggiungiamo che ci sono toponimi come Porcile (Bonito, Avellino), Porcari (LU), Porcia (PN) tutti spiegati come “pascolo di maiali o recinto di porci”. Nel Pistoiese c’è il toponimo Porciano, che sembra legato in origine al tradizionale allevamento dei maiali, tipico delle popolazioni longobarde.”
Note:
431 Silvio Pieri, Toponomastica della Valle dell’Arno, cit., p. 181.
432 Da Wikipedia.
433 A. Massaro, A. Montefusco, Strade e piazze di Avellino, Comune di Avellino, 2007, p. 152
Mentre del secondo così si dice in Wikipedia:
“Il nome originario del borgo era Scrofano[7]; sulla sua origine esistono diverse leggende, legate alla presenza di una scrofa, che compare nello stemma comunale. Altra interpretazione è che il nome derivi da Sacrum Fanum, ovvero edificio di culto sacro, riferito al santuario edificato sul Monte Musino (v. paragrafo seguente, “Siti Archeologici”).”
Le due mappe che seguono illustrano la topografia dei dintorni:
L’antroponimo da cui teoricamente dovrebbe derivare, con l’aggiunta del suffisso prediale –anus, sarebbe uno Scroful-us (o Scrofulius) non so quanto riconducibile ad un ipotetico e comunque mai attestato gentilizio di origine latina. Semmai più probabile sarebbe stato un soprannome (il cognomen nella formula classica dei tria nomina), attestato in almeno due casi:
1) Gneo Tremellio Scrofa, esponente della gens Tremellia nell’ambito della quale un Lucio fu il primo a ricevere il soprannome ed a trasmetterlo ai suoi discendenti:
“(lat. Cn. Tremellius Scrofa) scrittore latino (1º sec. a. C.) di agricoltura; ricordato come un’autorità nel campo dell’agricoltura da Varrone (con cui fu nel 59 a. C. vigintivir ad agros dividendos Campanos) e da Columella. La sua opera, che non ci è giunta, fu una delle fonti della Naturalis Historia di Plinio.” (cit. Enciclopedia online Treccani).
L’origine del suo soprannome ha due spiegazioni che hanno il sapore dell’aneddotica:
“…
Il nome di Tremellio Scrofa può far riferimento alla Gens Tremellia, ed ha come rappresentanti principali Lucio Tremellio Scrofa che fu Questore nel 143 a.C. ed è noto per aver partecipato alla guerra contro Filippo VII di Macedonia (ed anche questore durante la terza guerra servile nella battaglia finale tra Crasso e l’esercito comandato da Spartaco), Gaio Tremellio Scrofa che fu Pretore nel 52 a.C., infine l’omonimo Gneo Tremellio Scrofa che fu un importante agronomo e per questo viene ricordato da Lucio Giunio Moderato Columella nella sua opera De re Rustica e da Marco Terenzio Varrone.
L’aggiunta del cognomen Scrofa a quello successivo di Tremellio viene descritto da due versioni differenti:
La prima è quella riportata proprio da Varrone che conferisce questo soprannome a Lucio Tremellio Scrofa, il Questore di Macedonia che trovatosi solo a comandare l’esercito per l’assenza del Pro Pretore avrebbe affermato per galvanizzare i suoi uomini che “li avrebbe espulsi come una scrofa fa con i suoi piccoli” e per questo si è guadagnato questo appellativo ereditario.
La seconda invece è quella di Macrobio che riferisce un aneddoto dello stesso Lucio Tremellio che avrebbe nascosto nel letto della sua tenuta di campagna, una scrofa smarrita. Nel momento in cui i proprietari circondarono la casa per tornare in possesso dell’animale e chiesero a Tremellio dove si trovasse la loro scrofa, quest’ultimo in modo sprezzante acconsentì dando il permesso di cercare nella sua abitazione aggiungendo che “l’unica scrofa che avrebbero potuto trovare è quella che si trovava nel suo letto”, facendo sarcasticamente riferimento a sua moglie.” (cit. sito “Spartacus wiki“)
2) Annio Vibio Scrofola Demostene, (lat. A(nnius) (Uibius) Scrofula Demost(henes)) circa 20 a.C., testimoniato nel Corpus Vasorum Antiquorum Arret. 2327.66.
Inoltre Scurf(i)u potrebbe essere il termine etrusco per indicare lo scorpione, aracnide dalla ricca simbologia, ed anche un cognomen attestato in area chiusina (Scurfiu, titlni scurfiu, ET AS 1.268; Scurfu, ath arini scurfu ath patislanialisa, ET Cl 1.1061; Scu[rfunia], θa: scu(rfunia) 2(t)arχiσa, ET Cl 1.12364; Scurfu[s]a ET Cl 1.1062), da confrontare con quello lat. Scorpio,-onis (famoso l’auriga Flavius Scorpus o Scorpius), nonché col lat. scorfo/scorofio,-onis = “scorpione” (cit. prof. Massimo Pittau), e potrebbe essere all’origine del toponimo in seguito a metatesi semplice della R: Scurf(i)u > Scruf(i)u > lat. Scrof(i)-us > + suff. diminutivo –ulus (ita. -ello) e caduta della -i-: Scrof(i)-ulus > + suff. prediale -anus: Scroful-anus, infatti sia “scorpione” che “scrofa” hanno la medesima radice indoeuropea *(s)ker- = “tagliare, grattare, graffiare” (da cui pure “scrivere” < lat. scrībere < protoit.*skreiβō < pie. *(s)kreybʰ-, riferito a tempi remoti in cui l’azione consisteva nell’incidere e graffiare i supporti allora disponibili). In tal caso anche il prediale di questo fondo potrebbe essere riconducibile ad un proprietario di origine etrusca ed aggiungersi ad altri toponimi derivati da nomi di possibile origine etrusca, come ad esempio il non lontano Ancarano (etr. Anχarie > lat. Ancharius > pred. Ancharianus) del pago Vercellense (ma ve ne sono anche in altri pagi).
Meno probabile, ma non da escludere, che il toponimo avesse una derivazione agraria, come ho letto adombrare dal prof. Criniti nel suo “Onomastica e toponomastica del Veleiate“, Nicola Criniti – Caterina Scopelliti, “Ager Veleias”, 13.10 (2018) [www.veleia.it]:
“A che / a chi si possa riferire il toponimo, forse di origine agraria, non è possibile dire con una qualche plausibilità: ma vd. il cognomen Scrofu(la)…”
la parola, infatti, è così particolare da rendere immediatamente riconoscibile la scrofola che, in latino, è la ghianda, cioè il cibo preferito dai maiali e quindi anche dalla femmina del maiale, la scrofa appunto, da cui le deriva il nome.
Di solito il suffisso prediale veniva aggiunto al nome del proprietario, cioè ad un antroponimo; è questo fatto a rendere meno probabile l’ipotesi zoonimica, ma la vicinanza di uno scrof-ul-anus, nell’accezione semantica di scrofa, ad un succ-on-ianus apre alla suggestione di una seconda derivazione etimologica possibile per quest’ultimo: quella dal gallico *sukko- = suino, maiale, di cui tratterò in seguito nella pagina SUKKO.
A corollario e come base da cui partire per un’ipotesi etimologica di cui tratterò nella pagina SUCUS, cito la traduzione del prof. Pittau di un’iscrizione nel suo “600 iscrizioni etrusche tradotte e commentate“, M. Pittau, Ipazia Books – 2013:
“Iscrizione 32 (AS 1.209 – rec; TLE 436) A CAINI STRUME / MANΘ APA = Aulo Caenio Struma / (è) presso il Mane del padre. Iscrizione su ossario di calcare. STRUME è il cognomen che corrisponde a quello lat. Struma (letteralmente Scrofola). Il lat. struma “scrofola, ghiandola enfiata” è privo di etimologia (DELL) e pertanto molto probabilmente deriva dall’etrusco”.
Il termine struma deriva dal verbo struo,-es, struxi, structum, struere = “spargere, diffondere”, da cui deriva anche il termine “strutto”, cioè il lardo, tipicamente suino, fatto colare e reso liquido verosimilmente anche durante le cerimonie in cui venivano offerti sacrifici e libagioni alle divinità, sparso in onore del dio; e secondo me entra anche nel termine lat. mēnstruum = “mestruo”, insieme al termine mēnsis, col significato di “spargimento (di sangue) mensile” (ma anche “pagamento mensile”, uno dei tanti casi in cui sangue e denaro vengono accostati in metafore di cui parlerò più diffusamente nella pagina SUCCO)
Aggiungo qui l’etimologia del termine “scrofa” secondo il dizionario etimologico di Ottorino Pianigiani per porre le basi di un’ipotesi (ammetto io stesso improbabile ma, per me, suggestiva) di cui scrivo nella pagina BRUNEI:
Scròfa : rum. scroafa: = lat. s-cròf-a = gr. gromph-às da una radice indogermanica col senso di scavare, ond’anche il gr. gràph-ein , glyph-ein scavare (anche scrivere, ndr.), il got. groba [= ted. grube, a.sla. grobù, lat. scribi] cavità, fossa, graban [= ted. graben] scavare: così detta perché grufola, ossia scava col muso, ovvero il grifo.
Oltre a tutti questi significati occorre ricordare anche che sia “scrofa” che “scorpione” indicavano macchine da guerra ed assedio ed un qualche addetto al loro uso potrebbe averne derivato il proprio soprannome, in particolare quella specie di balestra che è lo scorpione (così chiamato probabilmente per la somiglianza con l’aracnide), per la rapidità con cui poteva essere ricaricato e per la forza con cui scagliava i proiettili, avrebbe potuto esser preso ad antonomasia di velocità.
Con lo stesso termine, infine, viene indicata una malattia, la scrofola o adenite tubercolare, che colpisce le ghiandole linfatiche del collo (ghiandola = piccola ghianda) facendole ingrossare al punto di renderle visibili dall’esterno come tante protuberanze tondeggianti ed arrossate. Colpiva soprattutto i bambini e i soggetti immunodepressi, e fino a tutto l’ ‘800 si credeva che potesse essere guarita dall’imposizione delle mani da parte di un re (in Inghilterra si chiamava the king’s evil, il male del re). Stessa derivazione ha la pianta che veniva utilizzata per curare l’adenite, la Scrophularia Nodosa.
Avrebbe potuto il nome o soprannome Scrofulus indicare forse una persona affetta da o sopravvissuta a quella malattia? Ovvero una persona piena di bozzi ben visibili? O forse si trattava di una traduzione semantica o fonetica in latino di un nome da un’altra lingua (celtico, germanico, etrusco, ligure …)? Oppure ancora un terreno pieno di avvallamenti e montagnole? O ricco di querce con cui allevare molti maiali? Forse “scrofolano” era il termine col quale si indicava il pastore di quei maiali (anche se a regola avrebbe dovuto chiamarsi scrofularius)?
Succonius/Socconius (vd. in UOMINI) è un gentilizio romano di probabile origine etrusca o celtica.
In ambito etrusco e falisco è abbastanza diffuso sotto altre forme in varie necropoli dell’etruria antica (Sucu, Zuqu, Sucisna/Sukisna, Zuχu, Zuχna etc. etrusco e Zuconia falisco, Prosopographia Etrusca di Massimo Morandi Tarabella – ed. Erma di Bretshneider – 2004). La forma latina nella quale il gentilizio etrusco viene tradotto è appunto Succonius o Socconius (la Z che in latino manca diventa S, la prima U resta tale o diventa O, la Χ (chi greca)/K/Q diventa C doppia e la -U diventa –O/-ONIUS, come nel falisco), evento frequente se si pensa che nella Roma delle origini circa un terzo delle gentes era di origine etrusca, e vi sono varie epigrafi in cui esso compare (vd. in ZUXU).
# Petracco: “Quanto al Succonianus (prediale dal gentilizio di origine etrusca Succonius) era certamente un fondo indipendente dallo Scrofulanus e poteva essere a qualche distanza da esso, ma sempre sulla riva sinistra del Trebbia; l’insieme dei due fondi aveva un valore notevole (180.000 sesterzi).”
Molti fondi agricoli della TAV vengono registrati con due o più prediali e per spiegare questo fenomeno si ipotizzano due possibilità: che ogni nome indichi un passaggio di proprietà successivo nel tempo oppure che i fondi con molti prediali siano il risultato di accorpamenti di terreni in capo ad un solo proprietario finale. Come lo Scrofulanus anche il Succonianus ha un solo prediale e quindi Cornelia Severa potrebbe averlo acquisito dai diretti discendenti del primo proprietario (le prime assegnazioni dovevano risalire ad un periodo successivo alla deduzione della colonia di Placentia, nel 218 a.C., ma più probabilmente dopo la sconfitta dei Ligures ed in particolare la tribù dei Veleiates, nel 158 a.C.) tuttavia potrebbe anche trattarsi di un fondo la cui denominazione risalga ad uno dei censimenti ordinati dagli imperatori tra il 45 a.C. ed il 13 d.C. e che si sia mantenuta nel corso dei decenni intercorsi tra il censimento augusteo e l’acquisto da parte di Cornelia Severa (o da suoi antenati che glielo lasciarono poi in eredità).
# Petracco: “La grande maggioranza delle denominazioni delle proprietà agrarie impegnate nella Tavola di Veleia, così come moltissimi toponimi arrivati fino a noi o attestati nei documenti medievali in tutta Italia e in molte regioni che facevano parte dell’impero romano, sono riconducibili a gentilizi romani conosciuti: è quindi evidente che derivano dal nome di un loro proprietario. Ma a quando risale la loro ufficializzazione, che è certamente alla base della loro utilizzazione successiva e della loro fissazione come toponimi? E con quale criterio, che deve essere stato il medesimo in tutto il dominio di Roma o quantomeno in Italia, sono state scelte? Già il De Pachtère (De Pachtère 1920, pp. 59-60) ha individuato il momento nel periodo augusteo (29 a.C.-14 d.C.) e l’occasione in un censimento fondiario. I presupposti vi erano già da una quindicina d’anni, giacchè nel 49 a.C. a Veleia e a molte altre città della Cisalpina fu riconosciuto lo status di municipio romano e pochi anni dopo, nel 45 a.C., la lex Iulia municipalis sanciva l’obbligo per tutti i municipi di fare il censimento. Ma di censimenti non ve ne furono fino al 28 a.C., essendo ormai in corso il principato di Augusto, che ne ordinò altri due, quello dell’8 a.C. e quello del 13 d.C., che costituisce il termine “post quem non”, in quanto sappiamo da Dione Cassio che in quell’occasione furono censite le proprietà agrarie di tutta l’Italia. Quanto al criterio con cui è stato dato ai fondi il nome di un proprietario, le ipotesi si riducono a tre: a) sono stati dati i nomi dei proprietari al tempo del censimento, oppure b) quelli dei proprietari da cui avevano acquisito la proprietà, oppure ancora c) quello dei primi proprietari romani del fondo (probabilmente insediati circa un secolo o poco più prima, ndr.)”.
In considerazione del fatto che a Scrivellano, nel corso dei secoli, sono sorti un castello ed una chiesa parrocchiale, è plausibile ritenere che tra i due fondi fosse il più importante per estensione e/o posizione e che, nel caso di contiguità fisica, abbia finito per inglobare e condannare all’oblio l’altro. Assumendo che l’attuale abitato di Scrivellano sia il luogo esatto in cui sorgeva il centro aziendale del fundus Scrofulanus, è necessario ricercare un toponimo che si trovi nel raggio massimo di un chilometro (il distretto Minervio è lo stesso per entrambi i fondi ed il confine con l’adiacente pago Ambitrebio doveva passare appena a sud dello Scrofolano) e che ricordi il nome latino: non sono ancora riuscito ad individuarlo ed è uno dei motivi per cui la trattazione sul fundus Succonianus si trova nella sezione delle ricerche.
Non so ancora se possa trattarsi di un’informazione utile per questa ricerca, ma voglio aggiungere che la chiesa di Scrivellano fu in origine un semplice oratorio unito in un’unica parrocchia con la chiesa di Fiorano, un villaggio non molto distante il cui toponimo è di chiara origine romana, forse identificabile col fundus Furianus del distretto Ambitrebio, a testimonianza del fatto che il Minervio e l’Ambitrebio fossero confinanti e che il confine potesse passare proprio tra i due fondi. Secondo Petracco invece il confine va collocato più a sud, verso il monte che da sempre, ed ancor oggi nell’uso colloquiale tipicamente piacentino, segna geograficamente, con la sua verde mole perfettamente conica, la differenza direi quasi antropologica tra i “civilizzati” abitanti della pianura ed i “rustici” montanari del contado: il monte Pillerone (in dialetto: al moònt Pirlòn).
# Petracco: “E’ probabile che il toponimo non sia sopravvissuto, comunque se si volesse cercarlo in quella zona l’esito più probabile è *Zicchignano.”
A proposito della probabilità di questa mancata sopravvivenza del toponimo piacentino, e però a sostegno della possibilità che sia perdurato abbastanza a lungo per dare origine al cognome prima di scomparire, vorrei citare un caso che potrebbe essere paradigmatico.
Spostandosi di molti chilometri in direzione sud-est, ma rimanendo comunque in regione Emilia-Romagna, e di molti secoli indietro nel tempo, si può incontrare un toponimo riportato in due carte molto antiche dell’archivio della diocesi di Ravenna: Socognano. Sebbene lo abbia cercato su varie mappe attuali e siti, non sono riuscito a trovarlo e quindi, a meno che esista un qualche documento che ancora non conosco e che ne testimonia la persistenza fino ad oggi, devo dedurre che sia esistito nelle forme con cui compare in due documenti riportati in “Monumenti ravennati de ‘secoli di mezzo per la maggior parte inediti”, Tomo II pag. 45 e Tomo V pag. 331, del conte Marco Fantuzzi, stampato in Venezia – 1803, e che sia successivamente caduto in disuso e scomparso al pari di una cappella dedicata a Sant’Apollinare che insieme a quel luogo viene citata nel documento del 1252:
1) Succuniano: in questa forma, ancora molto simile a quella latina originaria, si trova in una pergamena che riporta una Concessione del 20 gennaio 981 presente nell’ex Tabulario del Monastero di san Vitale di Ravenna. Nel documento si citano varie pertinenze di una certa Cappella di san Salvatore, tra le quali quattro vigneti in due fondi chiamati Aguli (presente anche in questa pergamena del 5 maggio 1162) e Succuniano (sic) che non dovevano essere lontani da Bagnolo, un villaggio sulla riva sinistra del fiume Savio nell’ambito dell’Agro Decimano tra Pievequinta (FC) e Pievesestina (FC), ma dei quali per ora non sono riuscito a trovare traccia.
2) Socognano: così si presenta quello che con ogni probabilità è lo stesso toponimo di cui al punto 1) in una Donazione del 15 agosto 1252 presente nel Tabulario della Chiesa Metropolitana di Ravenna. Stavolta viene citato per la presenza di una cappella dedicata a Sant’Apollinare di pertinenza della pieve di san Pietro in Cistino (Pievesestina) insieme alla Cappella di San Martino di Agognano e ad alcune altre cappelle di Bagnolo. Mentre Sant’Apollinare sembra essere scomparsa insieme al toponimo di pertinenza, rimane San Martino attualmente detto “in Fiume”, ma pure il relativo toponimo Agognano (forse anch’esso un’evoluzione dell’Aguli di cui al punto 1), e però in questo testo la località è trascritta come Magognato) risulta irreperibile.
La data del secondo documento rientra proprio nel periodo bassomedievale in cui i cognomi cominciarono a formarsi e, anche se la distanza da Pievesestina (FC) non è piccola per quei tempi (circa 100 km), poco più di un secolo dopo a Crevalcore (BO) sono registrati almeno due nuclei famigliari (vd. in EVO MEDIO) con il cognome Zucconi che potrebbe essere derivato da Succuniano/Socognano; inoltre, in “APPUNTI Lessicali e Toponomastici – QUINTA PUNTATA – ETIMOLOGIA DI BOLOGNA e di altri nomi emiliani in -ogno- ed -ogna“, Tito Zanardelli, ed. Nicola Zanichelli – 1906, si parla di questo toponimo facendolo derivare dal gentilizio Socconius o Soconius insieme al fundus Succonianus della TAV, a pag 23:
Socognanus, in Comitatu cesenate, in carta del 1252 ( FMR. V, 331 ) ; in altra anteriore del 981 : Succunianus ( id. II, 45). Da Socconius o Soconius ( CIL. V, 75; VI, 213; XI, 1273, 4714, eco.), donde anche il Succonianus della Tavola di Veleia.
Succonianus (Fundus-). — Vedi il precedente.
N.B.: in un sito reperibile online inserendo la parola “socognano” nel motore di ricerca è possibile incontrare un errore di lettura di un testo del 1419, che potrebbe indurre in confusione. Il toponimo erroneamente trascritto si trova in un ex libris vergato di suo pugno da un certo Jacopo di Filippo Landi, ma non si tratta della località romagnola poiché la lettera iniziale non è una S, bensì una F: non Socognano, ma Focognano, Castel Focognano.
“[I]ste liber Dantes est mei Iacopi Filippi ser Landi de castro Focognano / civis Aretij Scriptus mea propia manu dum eram in burgo Sancti Sepulcri sub / annis Domini Millesimo quatrigentesimo decimo nono […]
Come spiegato nella pagina Una Divina Commedia di primo Quattrocento del sito Viaggiare con Dante in questione, Ser Jacopo nell’ex libris asserisce di aver trascritto personalmente questa copia della Divina Commedia, di essere cittadino di Arezzo e di aver compiuto l’opera mentre si trovava a San Sepolcro (AR). Il cognome Landi è tipicamente piacentino (ma forse qui siamo in presenza di un’omonimia casuale), la cittadinanza è aretina e in quel sito si dice l’ascendenza provenire da Castro Socognano (sic) ma, non essendovi un simile toponimo in Toscana, in seguito ad un’analisi più attenta della grafia del testo originale devo correggere il redattore del sito per aver fatto una lettura errata del toponimo Castel Focognano, comune sparso esistente in provincia di Arezzo con etimologia prediale, forse da un Voconius o da un Falconius. Tuttavia riporto ugualmente l’occorrenza poiché è per me interessante, ancorché serendipico, il fatto che quel comune aretino abbia, tra le varie frazioni, anche Socana, toponimo di origine etrusca la cui derivazione potrebbe essere connessa, così come quella del misterioso e scomparso Socognano romagnolo, a quella che cerco di argomentare per il fundus Succonianus veleiate, e di cui tratto nella pagina ZUΧU.
Una serie di località che in passato potrebbero essere state la sede del fundus Succonianus e sulle quali sto conducendo ricerche sono tutte vicine, ma non troppo, a Scrivellano: il Poggiarello, Pigazzano, Pelacagna, Corte, Colombara, Visignano, tutte località in cui sono stati ritrovati materiali d’epoca romana. (Schede aree archeologiche del piacentino a cura di Daniela Tamagni).
# Petracco: “Anche rimanendo nelle vicinanze di Scrivellano sono altrettanto probabili come sede del Succoniano le località di Corte e, soprattutto, di Colombara. I toponimi “Colombara” sono frequenti nel piacentino/parmense e denotano possessi dell’abbazia benedettina cistercense di Chiaravalle della Colomba, Alseno (PC), fondata nel XII secolo. Queste denominazioni hanno ‘ucciso’ i nomi precedenti delle stesse località, che erano state certamente dei fondi romani. * Non si può escludere quindi che prima, nell’alto medioevo, se nella parlata volgare il sito dove si trovava il Succoniano era detto Succonis > Zucconi, anche la famiglia che ne era originaria sia stata chiamata ‘i Zucconi’, portandosi dietro dove si trasferiva il cognome.”
# Albasi: “Durante il periodo romano paleosuperfici e paleofrane, ambiti ritenuti più stabili, vennero ad essere interessate da fasi di popolamento, come accadde anche per le zone di montagna. Sul versante sinistro del Trebbia, nell’estensione di una vasta paelofrana individuata nella zona di Scrivellano (borgo del comune piacentino di Travo), sono localizzabili diversi abitati riconducibili all’età romana, Statto e Poggiarello per citarne alcuni”. (Tracce di romanizzazione nella Val Tidone, Appennino Piacentino∗ Tiziana Albasi “Ager Veleias”, 10.05 (2015) [www.veleia.it])
Non lontano da queste località si trova anche Vergnano, un toponimo di origine romana che potrebbe derivare da Vorminianus, come accade nel caso di un altro toponimo collocato in comune di Bobbio:
f. Vorminianus
Fondo nei distretti amministrativi Domizio ed Eboreo del territorio veleiate e libarnese, nel Pian di Vergnano (Verniano) in Val Trébbia (PC): è dichiarato da Cn. Antonius Priscus (ipoteca 28). Il toponimo potrebbe rimandare al nomen Vorminius, assente nel mondo romano. FONTI – TAV V, 20-21. (Onomasticon Veleiate, Nicola Criniti, “Ager Veleias”, 18.08 (2023) [www.veleia.it]
In particolare Visignano promette qualche sviluppo: in primo luogo perché nella zona di sua pertinenza, oltre a reperti sporadici di probabile origine neolitica, nei pressi di alcune sorgenti ed in circostanze ignote, nel XIX secolo fu rinvenuta una stele funeraria in pietra d’Istria, databile alla prima età imperiale, relativa al decurione piacentino M. Coelius Verus (ora conservata presso il Museo Archeologico di Parma), e poi negli anni ’80 del XX secolo furono ritrovati altri reperti come laterizi, tessere musive e monete, databili tra il V ed il VI sec. d. C. a riprova di una ultrasecolare continuità abitativa; in secondo luogo perché, se l’inziale Vi- stesse per vicus, (in dialetto *viig-Signàn >? Visignàn) il toponimo originale sarebbe Signano. Un uguale toponimo si riscontra nelle vicinanze del capoluogo comunale Travo e viene considerato dal Petracco come esito del fundus Aeschinianus del pagus Ambitrebius (TAV V, 39):
# Petracco: “La località di Signano, posta di fronte a Travo sulla destra del Trebbia, corrisponde quasi certamente al fundus Aeschinianus (TAV V, 39), appartenente al pago Ambitrebio, di proprietà per il 50% di Caio Vibio Severo. Da Aeschinianus si può arrivare a Signano con la scomparsa della vocale atona iniziale e la successiva riduzione di schi- a si-.”
Se l’evoluzione fosse stata la stessa, si potrebbe ipotizzare questo tipo di trasformazione: Succonianus > pronuncia scempia: Suconianus > chiusura della –u- atona in –i- (o caduta immediata della -u- atona senza previa trasformazione in -i-) + chiusura della –o- in –i- (come accade anche in Scrivellano): S(i)chiniano > caduta della –i- atona + palatalizzazione della –ni- in -gn-: Schignano > riduzione di schi- a si-: Signano. Da una carta del 1600 sappiamo che in loco sorse un castello di cui non rimane più traccia, perciò non è escluso che nei suoi dintorni potesse sorgere, anche prima della sua costruzione, un vico, un gruppo di case. Se così fosse potrei dire di aver trovato l’esatta collocazione, ma resterebbe da stabilire come un toponimo così mutato rispetto a quello latino possa aver dato origine al mio cognome: avrebbe dovuto rimanere simile all’originale almeno fino al momento della formazione e modificarsi solo in tempi più recenti. Signano, soprattutto se la mia ricostruzione dell’ipotetica evoluzione fonetica fosse corretta e plausibile, non sarebbe poi così lontano dall’ipotesi di Petracco sulla forma che il toponimo attuale potrebbe avere: Zicchignano.
Naturalmente sono consapevole che l’unica cosa in grado di confermare la mia ipotesi sarebbe il reperimento di documenti in grado di testimoniare questa trasformazione toponomastica. Ed infatti è contrario a questa possibilità il professor Petracco che, con la consueta disponibilità e gentilezza per le quali lo ringrazio sempre, mi risponde così in una mail del novembre 2020:
# Petracco: “è inutile cercarla (l’origine del cognome, nota mia) nel raro fundus Succonianus, che quasi certamente non ha un continuatore nella toponomastica attuale, ma doveva trovarsi non lontano da Scrivellano. E della zona fa certamente parte Visignano. La sua ipotesi di corrispondenza incontra però numerose gravi difficoltà, che prese nel loro insieme la rendono impraticabile. La prima è che vi è un modo semplicissimo per spiegare Visignano: che derivi da un fundus Vicinianus, dal gentilizio romano Vicinius oppure, con metatesi n/c, da un fundus Vinicianus dal gentilizio Vinicius, molto frequente. La seconda è che lei fa un’ipotesi di trasformazione molto complessa, che si sarebbe realizzata in molte fasi: da Succonianus a Sicchignano, poi passaggio a Schignano (che non mi convince soprattutto per la postaccentazione), poi passaggio a Signano, poi a Vico Signano e infine a Visignano (ma generalmente la c di vico passa a g e non cade, per cui l’esito sarebbe Vigosignano): una trasformazione troppo complessa per essere sostenuta senza la conoscenza documentale di forme storiche intermedie. E in questa sequenza dove troveremmo la forma Succoni, da cui si sarebbe potuto evolvere un cognome Zucconi? A tagliare definitivamente la testa al toro sta il fatto che a Visignano è stata scoperta la stele funeraria, quasi coeva della Tavola di Veleia, della famiglia dei Coelii. Era quindi il luogo dove i Coelii abitavano nel pedecolle, luogo di elezione della loro famiglia, e certamente non un importante fondo agricolo di proprietà di Cornelia Severa.”
In effetti ad un altro Visignano, quello d’Istria, si attribuisce con medesima alta probabilità la derivazione che Petracco propone anche per quello piacentino. Tuttavia esiste almeno un caso, proprio in un toponimo piacentino, che testimonia la possibile caduta della C/G di lat. vicus > ita. vico/vigo > dial. vīg: Viustino, che deriva dal lat. Vicus Justini > volg. Vico Justino > dial. Viustéin (viy’stɛ̃i) > ita. Viustino, come ricordato in un atto del 10 dicembre 1186 riportato in “Della etimologia dei nomi di Luogo delli stati ducali di Parma, Piacenza e Guastalla, Volume 2“, Francesco Nicolli, per i tipi di Giuseppe Tedeschi, Piacenza – 1833, pagg.181/182, in cui si scrive:
“…
(anno) 1186. (atto n°) X.
Concessione del Comune di Piacenza alla Chiesa di Viustino e ad altri Consorti di un canale d’ acqua irrigatoria da derivarsi dal T. Rio .
Dall’Archivio di S. Sep. di Piac.
Placent decim decembr. Rufinus speronus Bonizo surdus Obertus de andito consules comunis fecerunt concessionem et premissionem dompno Priori ecclesie sancta Trinitatis qui datum recipit nomine ipsius Ecclesie presbitero antonino de viustino qui recepit nomine ecclesie de vicoiustino altoto de Nicelis nomine omniutu vicinorum de corneliano pro laborerio de uno canali aque fluminis . . regii deorsum ab ecclesia do Roncho usque ad Campum centenarium ita ut liceat di derivarne l’ acqua d’ irrigazione ec.
Guilielmus Giruinus…”
ed anche in “La cronaca del Trecento italiano“, Carlo Ciucciovino, ed. Universitalia – 2007, vol. 1, pag.449:
“…Fatti del 1314
…
In maggio i fuorusciti guelfi di Piacenza, comandati da messer Leone degli Arcelli e Giacomo Saginbene, infliggono una pesante sconfitta all’esercito ghibellino di Piacenza. Lo scontro avviene nel territorio di Vico Justini (Viustino) in località Campo Frascarolo. La vittoria prelude ad un trattato di pace che i guelfi concludono con messer Ubertino di Lando, capo dei ghibellini di Piacenza. La città continua ad essere sotto il dominio di Galeazzo Visconti, ivi rappresentato dal suo vicario il Milanese messer Guglielmo Cagnolo….”
Restano valide le altre obiezioni, soprattutto quella sulla “laboriosità” forse eccessiva della trasformazione da Succonianus a Visignano che rende problematico stabilire come e quando avrebbe potuto dare origine al cognome Zucconi.
La vera incognita dunque, probabilmente irrisolvibile, è se il toponimo Succonianus (o il locativo derivato Succoni) e la sua successiva eventuale trasformazione in volgare e dialetto piacentino siano sopravvissuti abbastanza a lungo per riuscire a dare origine ad un cognome: avrebbero dovuto conservarsi invariati almeno fino al X-XIII secolo d.C. prima di scomparire nelle nebbie della storia, mentre i ritrovamenti archeologici di materiale romano ed altomedievale nelle località sopra citate sembrano non andare oltre il VII sec. d.C. I motivi per cui un toponimo cade in disuso sono molteplici e, nel caso di quelli della TAV, si stima che circa un terzo di quelli registrati siano del tutto scomparsi, come viene spiegato in “VARSI e la TABULA ALIMENTARIA di VELEIA“, di Gianluca Bottazzi.
A consentire tuttavia questa ipotesi di continuità toponimica ci sono due località che, per quanto mal si accordino con l’ipotesi da me sostenuta sulla contiguità tra Scrofulanus/Scrivellano e Succonianus, presentano elementi di interesse.
Esiste una località in comune di Bobbio (PC), ma fino al 1928 era in comune di Travo (PC), che si chiama Zucconi, dial. Sucòn (vd. in PIACENZA).
Sebbene sia lontana da Scrivellano (si trova vicino al borgo di Areglia, identificabile con l’appenninus Areliascus della TAV registrato nei pagi Domizio veleiate ed Eboreo libarnese, vd. sotto fig.1) e quindi difficilmente attribuibile alle pertinenze del pago Minervio piacentino (almeno per come la logica suggerisce di posizionare tale distretto in base alla corrispondenza tra Scrofulanus e Scrivellano), detta località presenta tuttavia due caratteristiche che la rendono interessante per la possibilità che vi sia stata una continuità del toponimo tra l’età romana e quella altomedievale:
1) è citata in un antico documento del X sec. come sorte (nel diritto romano di tarda età imperiale, era detto “sorte”, lat. sors, il terreno assegnato a un barbaro in seguito alla distribuzione di fondi per sorteggio) facente parte del beneficio militare, il cosiddetto “beneficium virili“, del monastero di San Colombano di Bobbio e questo significa che, quando venne registrato, il toponimo esisteva già da tempo e, se la corrispondenza con il borgo attuale è corretta, allora ha continuato ad esistere nel periodo in cui in Italia si formarono i primi cognomi;
2) il suo nome non è preceduto dal sostantivo “Cà” né dall’articolo “I/Ai” e presenta una forma che merita una trattazione approfondita.
Nel testo originale la località viene chiamata Mons Zucioni, (Monte Zucione nella traduzione di Carlo Cipolla), in cui il termine latino Mons viene affiancato alla forma volgarizzata di un toponimo latino precedente, come testimonia la Z iniziale al posto della latina S, che probabilmente aveva una desinenza in locativo della seconda declinazione.
Se tale forma volgarizzata corrispondesse davvero all’attuale toponimo Zucconi, allora sarebbe insolita la I al posto della H poiché solitamente in antico la C dura o geminata veniva scritta CH: “Zuchoni”, (ma in questo caso potrebbe anche trattarsi di un errore dello scriba, oppure di una lettura filologica errata dovuta a scarsa leggibilità del documento, che potrebbe aver reso difficile distinguere una I da una H o da una L: lo scoprirò solo quando riuscirò a vedere l’originale, anche se il professor Andrea Scala mi assicura che la trascrizione di Carlo Cipolla è affidabile).
Dunque:
1) Zucioni potrebbe essere una forma volgare (come suggerisce l’uso della Z, che il latino classico non impiegava, al posto della S) originata da un ablativo locativo latino (Succonis < Succoniis = monte “[presso i]/[ai] Zucconi”), oppure da un genitivo locativo (Succoni = monte (della località) di, o proprietà di Zucconi), l’estensore del documento antico intendendo enunciare quasi, più che il nome con cui quel monte veniva chiamato, la pertinenza amministrativa di una certa sommità priva un oronimo suo proprio, ma riconoscibile solo grazie alla vicinanza con la località Zucconi (l’attuale Poggio di Areglia segnato dall’oratorio di San Borromeo? Il monte Crigno che lo sovrasta? il Colle Crocetta di Cicogni?).
2) L’iniziale Z, che il latino non usava mai se non in parole di origine greca, indica la consapevolezza dello scriba che la S sorda del lat. Succonis e del dial. Sûcòn andasse resa con il grafema Z nel volgare in via di affermazione nel X secolo (tipico esito simile in tutta l’Italia settentrionale), il che potrebbe essere un tentativo di volgarizzare una forma latina, un po’ come accade nelle cartine militari 1:25.000 in cui molti toponimi dialettali raccolti dalla viva voce dei residenti vengono italianizzati foneticamente, spesso senza capirne il significato o la derivazione originali.
3) La lettera C in latino classico veniva sempre letta come nella parola “casa” (occlusiva velare sorda), ma nel corso della volgarizzazione si palatalizza diventando dolce davanti alle vocali E ed I (affricata postalveolare sorda). Tale trasformazione è in atto già dal III sec. d.C., ma è progressiva e potrebbe non essersi ancora affermata nel caso di questo toponimo, da leggersi dunque Zuchioni: se così fosse, la pronuncia del X secolo non sarebbe stata molto diversa da quella attuale.
4) La lettera I al posto dell’ H, se non si tratta di un errore di scrittura o di trascrizione o di una possibile resa grafica equivalente al grafema -CH- in quel periodo storico (ma non mi risulta), potrebbe essere l’esito in -CI- di una –CL- di un toponimo geomorfologico come *zuclo/suclo con l’accrescitivo -oni [zucco/zuccolo, inteso o come luogo sommitale, piccolo dosso (lat. dossuculum), o come ceppo (lat. soccus), luogo in cui abbondano ceppi di piante tagliate: lo zuccolone, il luogo degli zuccoloni]. Se così fosse l’origine del toponimo sarebbe diversa da quella che prende in considerazione la zucca, anche se il significato figurato popolare (testa, testona, in particolare la parte alta, la calotta cranica) sarebbe identico, ma forse in questo caso il toponimo sarebbe stato preceduto dall’articolo: “gli/i” Zucconi. Un esempio di questa derivazione, sebbene mantenga il -CL-, è costituito dal toponimo Zuclo (TN), che in diverse pergamene del Capitolo della Cattedrale di Trento risalenti ai sec. XIII e successivi viene indicato in vari modi: de Dossuclo, de Disucolo (1217), Desuculum (1236), Desucolo (1238), Disuculum, tutti originati appunto dal lat. dossuculum, diminutivo di dossum (dorsum), con aferesi della prima sillaba interpretata come preposizione: piccolo dosso, altura.
Dal Buzzi in “Codice diplomatico del Monastero di S. Colombano di Bobbio“, vol. III, ed. Tipografia del Senato – 1918, e da altri il toponimo viene identificato con la frazione di Bobbio di cui sopra, sia per assonanza sia perché elencata insieme ad altre località più facilmente identificabili poste nei dintorni. Il fatto che si trattasse di un monte, mentre oggi il gruppo di case che si vorrebbe omonimo giace su di un penepiano originato da una paleofrana, complica un po’ il riconoscimento certo, ma il luogo è circondato da poggi non molto alti e tondeggianti (p.es. il vicino Poggio di Areglia o il monte Crigno) che avrebbero potuto essere definiti come zuccoli (>zucloni>zucioni?) ed il termine mons potrebbe aver indicato più una configurazione geomorfica che una cima ben precisa. A suffragare invece in parte l’esattezza della collocazione del luogo vengono alcune carte topografiche del 1764 (pag. 74 de “Dal Penice al Po: il “territorio” del monastero di Bobbio nell’Oltrepò pavese-piacentino in età altomedievale”, di Eleonora Destefanis, a stampa in “Dalla curtis alla pieve fra archeologia e storia. Territori a confronto: l’Oltrepò Pavese e la Pianura Veronese”, atti della Giornata di Studi, Torrazzetta di Borgo Priolo (PV), 27 ottobre 2007, a cura di S. Lusuardi Siena, Mantova 2008, pp. 71-100) che individuano in zona un Rio Zuchoni (Riuo de Zuchoni), confermate da una carta del XIX sec. in cui si trova come Rio di Zucconi, che forse si chiamava così perché discendeva da quel monte, oppure perché era di pertinenza dell’omonimo fondo agricolo (la sors del documento abbaziale). Attualmente le carte riservano l’idronimo solo ad un piccolo rivo che sfocia in prossimità dell’abitato di Levratti (dal blog Il Notiziario Bobbiese) nel rivo più grande e lungo a cui una volta era interamente riservato, e che oggi invece si chiama Rio del Gatto. Questo rivo discende dalla sella esistente tra il monte Groppo-i Sassi Neri (mt. 999) ed il Pian Perduto (mt. 1008), ma dalla carta del XIX secolo si evince che, al’epoca, a chiamarsi Rio del Gatto era il rivo che scorre presso l’abitato di Antarelli e che ora porta lo stesso nome del villaggio: forse è avvenuto qualche errore di accatastamento in epoca più recente?
Confrontando le tre mappe qui sotto è possibile farsi un’idea del cambiamento.
Per quanto riguarda invece la forma attuale del toponimo Zucconi, le assenze del sostantivo “Cà“, cioè casa, e/o dell’articolo “I/Ai, Gli/Agli” a precederlo testimoniano la sua preesistenza ad un insediamento abitativo di tipo eponimico e la sua antichità perché nel primo caso, di solito, “Cà” indica l’esistenza di una casa che prende il nome dalla famiglia che la costruisce o ne entra in possesso e vi risiede stabilmente, e non viceversa; nel secondo caso perché l’articolo cominciò ad essere adoperato, con medesima funzione identificativa di Cà per luogo di residenza di una famiglia, solo dopo il V sec.: quasi tutti i toponimi senza l’articolo sono pertanto di origine più antica. Tuttavia, nel caso di questo toponimo, l’articolo “I” potrebbe essere usato da alcuni più che altro per indicare la lettura al plurale di un termine che viene pronunciato, in dialetto, nello stesso modo anche al singolare.
Se tutto questo fosse confermato, la località Zucconi, più che il Monte Zuccone (PR), sarebbe forse la candidata più probabile come origine toponimica locale propriamente piacentina del mio cognome, sebbene non sia topograficamente identificabile col fundus Succonianus, almeno non con certezza, senza ridefinire interamente il confine sud del placentinus pagus Minervius, eventualità estremamente improbabile.
Proprio sul versante opposto del crinale, che la divide dalla valle della Dorba con Zucconi sopra citato, si trova la valle del Tidoncello Merlingo, sulla quale insiste il piccolo villaggio di Cicogni.
Alcuni autori delle prime traduzioni della TAV scrissero che il toponimo di questo borgo in alta val Tidone fosse derivato da Succonianus: “Della celebratissima Tavola Alimentaria di Trajano, scoperta nel territorio …“, Secondo Giuseppe Pittarelli, Reale Stamperia di Torino – 1790; “Géographie ancienne historique et comparée des Gaules cisalpine“, Charles Athanase Walckenaer, Dufart –1839; “Atlas géographique de l’Italie ancienne“, Ernest Desjardins, Hachette – 1852.
Invece secondo il prof. Andrea Scala, che ringrazio per i preziosi consigli e l’aiuto, la derivazione è diversa. Nel suo “Appunti di toponomastica piacentina“, ed. Tipleco – 2010, il professore scrive che Cicogni viene citata una prima volta nello stesso documento del X sec. in cui si parla anche di Mons Zucioni, e la grafia in volgare è Cigugni (CDSCB doc. CVII, r.87, vol. I, pag. 375) che, in un documento successivo del XIII sec., diventa il latino Cicognum (CDSCB, doc. CCLXXX, r. 6, vol. II, pag. 295):
“11.29 CICOGNI [‘sigwoɲ]. Nel X sec. in Cigugni (CDSCB doc. CVII, r.87, vol.1, pag. 375); XIII sec. Cigognum (CDSCB, doc. CCLXX, r. 6, pag. 295). Probabilmente da un antroponimo celtico del tipo *Ciconius. La più antica attestazione mostra una -i per la quale bisogna forse partire da una forma di locativo plurale latino Ciconis < Ciconiis [Serra 1931, pag. 121 e pag. 276]”. pag.150
Poi, nella stessa pagina, prende in considerazione altri due toponimi simili: Casa Cicognoli (in altre mappe registrato come Molino di Cognoli), e Cognoli, situato alla confluenza tra il Tidoncello Merlingo ed il rio delle Sarmase:
“11.30 C. CICOGNOLI [ar my’lɛ̃i] (> il mulino, nota mia). In una carta del 1377 si cita tale Iohannis de Zigugnollo (RM, doc. 1211, r. 174, vol. IV, pag. 436). Cfr. precedente, di cui sembra costituire un diminutivo. La forma locale rimanda alla presenza di un mulino”. pag. 150
il che risulta interessante perché lo stesso esito Cicogni/Cicognolo si ottiene partendo da una C (Cigugni) nel primo caso e da una Z (Zigugnollo) nel secondo, mentre la forma dialettale orale è Sìgugn, a riprova dell’intercambiabilità tra Z, S e C nell’evoluzione grafica di molti toponimi.
“11.32 COGNOLI [i ky’ɲ∅]. Da cŭnĕŏli, cioè terreni di forma triangolare”. pag.150
e quindi o dal desueto/dialettale cogno = cuneo (come il ben più famoso piemontese Cuneo, l’abitato si trova nell’angolo compreso tra la confluenza di due torrenti) o per aferesi della sillaba iniziale Ci-, vista la breve distanza topografica da Casa Cicognoli. (In latino conea è la cicogna a cui veniva associato anche un famoso gesto di scherno: fare la cicogna).
Oltre a ciò, in due documenti dell’ XI sec. riportati in “Historiae Patriae Monumenta“, serie II tomo XXI, Codex Diplomaticus Cremonae, per i tipi dei fratelli Bocca, Torino – 1845, a pagg. 87, n. 177 e 88, n. 183, ad essere citato come Cikuniole è l’attuale Cicognolo (CR), ma la forma ha vari altri riscontri tra i nomi locali lombardi come ad esempio Cigognola (PV) (dial. Saugnöla).
In riferimento a quest’ultima forma dialettale, è interessante confrontare il toponimo di una località francese, che dimostra uno sviluppo romanzo simile a Saugnöla: dal latino Mons Sanguinis sarebbe derivato Montsangoin e poi, per corruzione, Montseugny, ma in un documento del 1120 la stessa località viene chiamata llom Ciconius (llom in catalano significa costa, ovvero, mons Ciconius > costa, monte della Cicogna), come viene ricordato in un sito che elenca le commanderies francesi dei Templari in Haute-Saône. Sebbene possa trattarsi di una paraetimologia, è interessante il fatto che il toponimo Seugny sembri risultare come volgarizzamento sia di sanguinis sia di ciconius:
“Montseugny (70)
Maison du Temple de Montseugny ou de l’Hôpital ?
Département: Haute-Saône, Arrondissement: Vesoul, Canton: Pesmes, Commune: Germigney – 70
— Montseugny s’appelait en latin « Mans Sanguinis », nom qui semblerait se rapporter à quelque sanglant combat livré sur la hauteur où est situé le village.
A quelle époque ?
Aucune tradition ne l’indique. « De Mons Sanguinis » on a fait d’abord « Montsangoin », et par corruption Montseugny.
— Dans une charte de 1120 et dans plusieurs titres subséquents, ce village est appelé « llom Ciconius » (mont de la Cicogne)
— Montseugny est mentionné dans une charte de 1120. A cette époque l’église du lieu dépendait de Saint-Etienne de Dijon, qui la céda aux Templiers lorsqu’ils fondèrent leur établissement de Montseugny. Les biens de l’ordre du Temple ayant passé, lors de sa suppression, aux chevaliers de Malte, ceux-ci maintinrent la commanderie de Montseugny et en firent un membre de la commanderie de Sales. (V. Chantes) Leur chapelle, anciennement devenue l’église paroissiale du village, a été partiellement reconstruite en 1833-34-35. La partie conservée paraît remonter au XIIIe ou au XIVe siècle, et avoir été bâtie avec des matériaux provenant d’un édifice beaucoup plus ancien encore: en perçant des murs, on y a trouvé des fragments de colonnes, de chapiteaux, etc. Les Templiers, en faisant édifier leur chapelle, auront vraisemblablement utilisé des débris trouvés dans les ruines de la bourgade sans nom connu que mentionne M. le président Clerc.
— Une belle sculpture antique et d’assez grande dimension décore le portail de l’église. Elle représente Jésus-Christ assis au milieu des apôtres, levant la main droite au ciel, et tenant de l’autre un livre ouvert sur la première page duquel est un alpha, et sur la seconde un oméga. A droite et à gauche du Seigneur sont figurés les emblèmes des quatre évangélistes: l’ange, le boeuf, le lion et l’aigle. Ce monument vient de l’ancienne église.
— L’église actuelle a été reconnue comme succursale par le décret du 30 septembre 1807.
— Fête patronale, l’Assomption.
— Montseugny a été le berceau et continue d’être le siège de la congrégation enseignante connue sous le nom de communauté des Enfants de Marie.
— Le château des chevaliers de Malte existe encore presque tout entier. On en a fait la maison commune.
La Haute-Saône, Dictionnaire Historique et Topographique et Statistique des Communes du Département. Par L. Suchaux. Tome II, Vesoul, 1866.”
Questa coincidenza d’oltralpe consente una digressione sull’origine del nome del département Haute-Saône, l’Alta Saona. Avendo attinenza con l’alternativa derivazione celtica del gentilizio Succonius, ne tratterò nella pagina SUKKO.
Il tema compare in diversi altri toponimi:
• Cicogna (Villa), frazione di S. Lazzaro di Savena (BO). Secondo Zanardelli: “da un gentilizio Ciconius, donde anche Cicogno (Casal-), frazione di Prignano sulla Secchia (MO) e Cicogni (Pecorara, Piacenza)”. Numerose le altre “Cicogna” sparse nel nord Italia: una frazione di Cossogno (VB) (dial. Scigogna), una frazione di Pojana Maggiore (VI), una frazione di Roveredo di Guà (VR), una frazione di Villafranca Padovana (PD), un torrente della Valbelluna (BL) (la Zegogna o la Žicogna o Žigogna). Proprio quest’ultimo idronimo, riferendosi ad un fiume e non ad un abitato, “sembra derivare dal latino “cĭcōnĭa“, il termine che veniva dato a uno strumento a collo lungo e contorto usato per attingere l’acqua.” (fonte Wikipedia) e non da un nome proprio.
• Ciconicco, (Cicunins) frazione di Fagagna (UD).
• Cicònio, Sicheugn in piemontese, a pochi km da Torino, è il più interessante perchè in “Rerum Italicarum Scriptores“, Ludovico Muratori, per i tipi della Tipografia della Società Palatina, Milano – 1733, vol. XXIII, pag.553, viene citato come “…de locis Zuchoni, Luxigliati, Auzegnae, Cucili, & Foglicii…” (“…dai luoghi di Ciconio, Lusigliè, Ozegna, Cuceglio e Foglizzo…”), costituendo in questo modo la prova di una possibile medesima derivazione dialettale, con chiusura della U atona in I, da Succonius anche di Cìcogni attraverso la forma Zuchoni. Sebbene gli altri toponimi in latino corrispondano perfettamente alla loro traduzione in italiano e quindi permettano di ipotizzare lo stesso anhe per Cicònio, la forma trascritta dal Muratori potrebbe essere dovuta ad una ipercorrezione (vd. TORINO).
• Ciconìa, appena fuori Orvieto (TR), sulla sponda sinistra del fiume Paglia (vd. TERNI), oltre alle precedenti considerazioni valide anche per gli altri toponimi simili, in questo caso si aggiunge quella di trovarsi nei pressi della necropoli della Cannicella, sede di una delle attestazioni più antiche del gentilizio etrusco Zuχu, e non lontano da Spoleto e Bevagna, dove sono state trovate lapidi dedicate alla gens Succonia (vd. ZUΧU). Tuttavia la professoressa Maria Teresa Moretti, nel suo “Storie nella storia“, ed. Orvieto – 2003, fa risalire l’origine di questo toponimo al nome del proprietario del mulino che in seguito prese il nome di Villa Ciconia e che poi identificherà l’intero quartiere periferico orvietano: Geconia Marabottini, responsabile della costruzione di un canale per l’alimentazione della pala del mulino omonimo nel 1560. Nello stesso volume non manca di ricordare che inizialmente, tra le varie ipotesi, si è pensato che il toponimo derivasse dal nome con cui venivano appellati gli abitanti della Francia del sud: Ciconì. Secondo tale ipotesi costoro avrebbero raggiunto Roma in pellegrinaggio percorrendo la via Francigena e poi avrebbero aperto vari punti di ristoro lungo detta via, chiamati Cicogni proprio perchè gestiti dai provenzali.
Ritornando alla possibile identificazione del fundus succonianus con Cicogni, ci sono due buoni motivi per ritenere che la proposta dei traduttori più antichi non sia valida:
1) Cicogni è troppo profondamente collocata nelle colline più alte della val Tidone per pensare che un pagus di Piacenza potesse arrivare fin lassù e, se tenessimo per buono il ragionamento precedentemente fatto sulla vicinanza tra Succonianus e Scrofulanus, le due località sarebbero troppo distanti tra loro. Nulla vieta, però, che esistessero anche altri fondi succoniani sparsi sul territorio, tra i quali Cicogni potrebbe essere uno.
2) Nella parlata locale l’accento cade sulla prima sillaba, la parossitona Sìgugn: anche se i singoli fonemi da cui il toponimo è composto potrebbero derivare dal lat. Succonianus (la S iniziale, la U che diventa I, la doppia C che diventa G, la O che diventa U e -NI- che diventa GN), l’esito avrebbe dovuto essere una parola ossitona Sigùgn/Sigugnàn.
Considerando la forma dialettale, l’unica connessione di tipo linguistico con il nostro cognome che si può ipotizzare è quella legata all’attrezzo che viene utilizzato per prelevare acqua da un pozzo che si chiama cicognola (lombardo sigogna, bolognese zighgnola = carrucola, piemontese sivignola = manovella. fonte: DEI II, 931), chiamato anche mazzacavallo e tolleno, e che anche potrebbe essere all’origine del toponimo in questione: si tratta di un sifone ed in dialetto piacentino si chiama sügòn (Vocabolario Piacentino-italiano, Guido Tammi), con la U chiusa, cioè succhione, ventosa.
E tuttavia anche questa debole ipotesi ha diritto di cittadinanza nella storia della ricerca del luogo esatto in cui il fundus potesse trovarsi. Un riassunto sul toponimo anche nella pagina PIACENZA.
Fig. 1. Posizionamento ipotetico del pago Minervio piacentino secondo Petracco.
2.5 Distretto Minervio del territorio piacentino
In queste quattro parole c’è uno dei tanti misteri della TAV che cercherò di illustrare brevemente qui di seguito.
Trattandosi di un distretto del territorio piacentino, verosimilmente in un’area geografica di bassa collina, non si sarebbe dovuto trovare nella tavola di Velleia ma, come altri distretti di municipi confinanti, ci finisce perché un grande proprietario terriero decide di inserirlo nell’ipoteca insieme a molti altri fondi posseduti in territorio veleiate e perché, probabilmente, i fondi si trovavano molto vicino al suo confine. Il fatto che questo inserimento sia stato possibile suggerisce la probabilità, in altri casi accertata, che anche qui i confini amministrativi tra municipia non coincidessero esattamente con quelli tradizionali, etnici o storici, e che in certi ambiti questi ultimi fossero più importanti di quelli. Inoltre il Minervio compare una sola volta, ciò che rende difficile la sua collocazione più di quella dei distretti veleiati. A complicare ulteriormente la cosa, quello che sembra proprio essere un secondo e diverso distretto Minervio viene citato come appartenente al territorio del municipio di Lucca, in un’area geografica per forza di cose collinare e montana (vd. in BRUNEI).
“pag. Minervius – Distretto del territorio lucchese, nell’alta Val Taro: il toponimo rimanda a teonimo. – Fonti: TAV III, 33, 76.”
“pag. Minervius – Distretto del territorio piacentino: il toponimo sarebbe derivato dal santuario di Minerva Medica / Memor sul medio corso del fiume Trebbia, nei dintorni di Travo (PC). – Fonti: TAV V, 90.”
(Veleia, ager Veleias, Veleiates: anagrafia e toponimia, di Nicola Criniti e Caterina Scopelliti – www.veleia.it).
Capire dove si trovasse esattamente questo distretto non è cosa facile ma, se si assume che Scrivellano sia Scrofulanum, e che il Fiorano con cui il suo oratorio era unito in parrocchia fosse il fundus Furianum del pago Ambitrebio, si può ipotizzare che esso confinasse a sud con quest’ultimo proprio a causa del nome che porta: sulla strada che lo attraversava da nord a sud infatti, quella che congiunge Piacenza con Travo (PC) sulla riva sinistra del fiume Trebbia e che ha sicuramente origini romane ed anteriori, si doveva necessariamente passare per recarsi al santuario di Minerva Medica Cabardiacense, situato vicino all’abitato di Caverzago (Travo), nel pago Ambitrebio.
* Petracco: “…ciò non toglie che il pago Minervio piacentino possa essere stato così intitolato con riferimento al santuario, in quanto di lì bisognava passare per recarvisi da Piacenza.”
Secondo alcuni studiosi i pagi potevano anche avere confini discontinui e presentarsi in parte come enclave all’interno di altri pagi, oppure con propaggini che potevano incunearsi in profondità tra un pago e l’altro; inoltre ci sono casi in cui essi sono suddivisi tra due municipi (come ad esempio il Salvio, suddiviso tra Velleia e Parma, vd. fig.1), lasciando così intuire che fossero unità territoriali più antiche, forse anche preesistenti alla colonizzazione romana, sicuramente all’erezione delle colonie in municipi, probabilmente in virtù di confini geografici naturali (fiumi, crinali, vette) che assumevano caratteri di sacralità per le popolazioni ivi residenti da secoli. Veleia diventa municipio dopo Placentia (nel 49 a.C. la prima, nel 90 a.C. la seconda) ed il suo territorio viene ricavato e delimitato sottraendo a Placentia (e forse anche parzialmente a Parma ed a Lucca) tutta la parte collinare e montana, ma non è da escludere che il santuario di Minerva Medica, posto nei pressi dell’attuale abitato di Travo (PC), ed un certo tratto del territorio che lo circondava, comprendente la strada che lo raggiungeva costeggiando il corso del fiume Trebbia, costituisse un cuneo di pertinenza del pago Minervio piacentino, permettendo così di lasciare il controllo dell’importante centro sacrale al municipio di Placentia.
Se l’ipotesi del cuneo fosse corretta, due toponimi (uno esistente ed uno scomparso) potrebbero costituire indizi dell’esistenza del fundus Succonianus proprio nell’ambito di questa propaggine territoriale piacentina (vd. sotto fig. 2):
1) Rio del Corneliano. Un piccolo canale naturale di sgrondo che potrebbe aver preso il suo toponimo dalla gens Cornelia, di cui la dichiarante dell’ipoteca 31 faceva parte.
2) Zuccone/la Zuccona. Una cascina di cui non v’è più traccia, probabilmente abbandonata già nel secolo scorso ed evidentemente crollata, ma considerata come il luogo del fundus Succonianus ne “Archeologia universale Parmense, Piacentina e Guastallese” di don Francesco Nicolli, del 1834, (dove viene chiamata Zuccone) ed ancora presente e segnata insieme ad un altro rio, il rio della Zuccona affluente del rio del Corneliano, nel cessato catasto napoleonico del XIX sec. alla sezione F foglio 5 (dove viene chiamata La Zuccona). La strada che saliva dall’abitato di Caselli e raggiungeva la cascina è ancora segnata sulle mappe attuali nonostante non porti più ad alcun caseggiato (fig.2): al suo posto è ricresciuto il bosco e non molto più a monte si vede un corpo di frana piuttosto esteso che potrebbe essere stato la causa dell’abbandono del fabbricato (mappa dal sito https://servizimoka.regione.emilia-romagna.it/mokaApp/apps/REER/index.html dei sentieri della rete escursionistica della Regione Emilia Romagna):
Anche in questo caso si possono sollevare alcune obiezioni per confutare l’ipotesi:
1) Se Scrofulanus è Scrivellano allora La Zuccona si trova troppo lontano per poter rispettare la fondata ipotesi che i due fondi della TAV fossero confinanti, se non lo è allora la ricerca di un prediale attuale compatibile con Scrofulanus nelle vicinanze di La Zuccona non ha dato alcun esito positivo.
2) Il rio del Corneliano, oltre che da Cornelia Severa, potrebbe derivare il suo idronimo da uno qualsiasi degli altri numerosi appartenenti all’omonima gens registrati nella TAV o presenti in iscrizioni rinvenute sul territorio, oppure da un ipotetico fundus Cornelianus non citato tra i tanti riportati nell’epigrafe veleiate (se ne contano ben nove, ma nessuno nel pago Minervio piacentino o nell’Ambitrebio veleiate).
3) Il toponimo “La Zuccona” viene trascritto, almeno nella mappa del cessato catasto napoleonico, preceduto dall’articolo che, come ho già spiegato nella voce riguardante il Mons Zucioni, testimonierebbe un’origine abbastanza recente, anche se il Nicolli nel 1834 scrive “Zuccone” senza articolo.
4) Le iscrizioni votive fin qui ritrovate, nelle quali si ringrazia Minerva Memore e Medica da parte dei devoti salvati da una qualche grave malattia, chiamano la dèa con l’aggettivo locativo “cabardiacense“, che testimonia la presenza del tempio nelle vicinanze di Caverzago, Travo (PC), sicuramente erede del toponimo caratterizzante i fundi Cabardiacus e Cabardiacus Vetus, entrambi dichiarati nell’ipoteca 13 di Mommeio Persico come appartenenti al pago Ambitrebio.
Cabardiacensis: Epiteto di Minerva Medica / Memor, cui era dedicato un santuario terapeutico-oracolare sul medio corso del fiume Trébbia, nella zona di Caverzago (Travo, PC): è certo da collegare ai seguenti f. Cabardiacus [→]. FONTI – CIL XI, 1301 = MantVel, p. 26 = EDCS-20402753; CIL XI, 1306 = ILS 3137 = MantVel, pp. 24, 27 = EDCS-20402758. 31.
f. Cabardiacus: Fondo ubicato nel distretto Ambitrebio del territorio veleiate, nella zona di Caverzago (Travo, PC). È dichiarato da M. Mommeius Persicus nell’ipoteca 13. Il gentilizio Cabardius, a cui il toponimo “celtico” rinvia, non è altrove testimoniato in CIL XI.FONTI – TAV II, 48.
f. Cabardiacus Vetus: Fondo ubicato nel distretto Ambitrebio del territorio veleiate, nella zona di Caverzago (Travo, PC). È dichiarato da M. Mommeius Persicus nell’ipoteca 13. Il toponimo “celtico” rimanda al gentilizio del precedente f. Cabardiacus [→], dal quale parrebbe distinto dall’apposizione latina Vetus: indizio della preesistenza del suddetto fondo rispetto al precedente? FONTI – TAV II, 65-66.
(cit. “Onomastica e toponomastica del Veleiate“, Nicola Criniti – Caterina Scopelliti, “Ager Veleias”, 13.10 (2018) [www.veleia.it])
Se però il santuario minervio venne già anticamente collegato ad un toponimo presente nel pago Ambitrebio veleiate, è difficile esser certi che potesse ricadere sotto la giurisdizione di Piacenza tramite la delimitazione di un ipotetico cuneo, propaggine del pago Minervio piacentino, anche se il prof. Criniti lo ritiene possibile, spiegandolo così:
“…appare tuttavia assai controverso, e poco plausibile, che appartenesse al Veleiate anche il ricco santuario terapeutico-oracolare di Minerva Medica / Memor, di eredità celtica [SUSINI 1966, p. 112, 1975, p. 337; BOLLINI 1969, p. 350; TOZZI 1983, p. 511; CRINITI 1990, p. 250; MARINI CALVANI 1990, p. 806 ss.; RODA 2000, p. 260 ss.; DALL’AGLIO-MARCHETTI 2006, p. 173 ss.; ORTALLI 2007, p. 19; CARINI 2008, p. 15 ss.; CRINITI 2013, 1.D], sviluppatosi sul medio corso del fiume Trébbia, nei dintorni dell’attuale Caverzago, 4 km a sud del comune piacentino di Travo [DALL’AGLIO-MARCHETTI 2006 (= AE, 2007, 150); CRINITI 2007, pp. 16-17, 56: e BOLLINI 1969; CENERINI 1992, p. 99 ss.; DESTEFANIS 2002, p. 112; Minerva Medica 2008; RIGATO 2008, p. 238 ss.]. Il suo ambito forse dovette competere economicamente a Piacenza, pur trovandosi entro la pertica veleiate, segno si è detto – non così evidente, tuttavia, se si tiene conto della Tabula alimentaria – dell’incapacità progressiva di Veleia «di esercitare una fattiva giurisdizione su tutto il suo vasto territorio» (MENNELLA 1999, pp. 93-94: «ab antiquo» secondo CARINI 2008, p. 19, poco plausibilmente). Al municipium, del resto, già in età triumvirale e augustea sarebbero stati sottratti, o acquistati?, in misura limitata appezzamenti a favore di Piacenza e Parma, dei veterani in esse stanziati e pure, forse, di antichi possessores. In quest’ottica, quindi, si potrebbe probabilmente intendere l’assegnazione a Piacenza – forse attraverso il noto processo dell’esproprio di terre ai centri non coinvolti in deduzioni e loro attribuzione a quanti invece ne avevano sofferto («agri sumpti») – della gestione del ricco sacrarium. L’epiteto della divinità «Cabardiacensis» su due disperse epigrafi indigene [CIL, XI, 1301, 1306: infra] si ricollega inequivocabilmente a Cabardiacus [TAV, II, 65-66 e 48: vd. CENERINI 1992, p. 99; DALL’AGLIO MARCHETTI 2006; CRINITI 1990, p. 950; CRINITI 1991, p. 202; CRINITI-SCOPELLITI 2007, p. 110; CARINI 2008, pp. 11-19; RIGATO 2008, pp. 238-239; CRINITI SCOPELLITI 2012, p. 27], toponimo fondiario ‘celtico’ della Tabula alimentaria, proprio del distretto veleiate Ambitrebio, nella parte inferiore della Val Trébbia [CRINITI 1990, p. 946 ss. e 1991, p. 234; CRINITI-SCOPELLITI 2007, p. 83 e 2012, p. 8].
Eugen Bormann, che visitò il territorio nel 1874, propendeva a collocare l’area del sacrarium nel distretto piacentino Minervio della Tabula alimentaria [TAV, V, 90: vd. CRINITI 1990, p. 948 e 1991, p. 241; CRINITI-SCOPELLITI 2007, p. 170 e 2012, p. 66]: altri studiosi la riferirono – pur con una qualche prudenza – al Veleiate [vd. DONATI 1967, p. 121; DALL’AGLIO-MARCHETTI 2006]; altri ancora oscillarono curiosamente tra l’una e l’altra attribuzione [vd. MARINI CALVANI 1990a, pp. 69-73]. Preferisco però qui [come già in CRINITI-SCOPELLITI 2007 e 2012 e nella mia Mantissa Veleiate (CRINITI 2013), dove è stato registrato solo il discusso CIL, XI, 1303, vd. più sotto] seguire la scelta finale dello studioso prussiano [BORMANN 1888, p. 254], condivisa da molti, e considerarla un’entità a parte, al confine dei territori piacentino e veleiate, mantenendo distinte le sue iscrizioni, CIL, XI, 1292-1314 [CRINITI 2007, pp. 16-17, 56; CRINITI 2013, 1.D: e CARINI 2008 (= AE, 2008, 537)]”.
(“Travo (Piacenza): aggiornamento epigrafico“, Nicola Criniti, “Ager Veleias”, 7.06 2012)
Ma torniamo ad elencare gli elementi successivi dell’ipoteca: la citazione di due soli confinanti (adfines) per entrambi è la prova più forte del fatto che il fundus scrofulanus ed il fundus succonianus fossero tra loro adiacenti ché, altrimenti, ciascun fondo avrebbe dovuto averne due a corredo, come accade di regola nella TAV.
2.6 Fratelli Cassi, confinanti
Tra Borgo Val di Taro e Fornovo Taro ci sono un monte ed un villaggio che portano il medesimo toponimo Cassio, ed il cognome Cassi è tutt’ora molto diffuso in provincia di Parma, in particolare a Fidenza, ed in quella di Piacenza, al punto da consentire di ipotizzare che il nomen della gens Cassia sia potuto sopravvivere attraverso i secoli.
Nessun proprietario con questo gentilizio figura tra i dichiaranti che chiedono ipoteca per fondi agricoli posti nei quattro pagi della val Trebbia (Bagienno, Domizio, Ambitrebio e Vercellese), mentre il loro nome viene citato come confinante o proprietario di fondi posti nella parte est del territorio velleiate (pagi Salvio, Giunonio, Floreio etc.) ai confini col territorio parmense.
Come nota a margine: in un caso viene associato ad un altro confinante il cui gentilizio è Terenzio (ipoteca 19) sempre per un fondo posto nella parte orientale del territorio velleiate, ed a non molta distanza dall’abitato di Cassio (PR) si trova quello di Terenzo (PR).
2.7 L(ucio) Labinco, confinante
Questo nome è presente solo in questa ipoteca. Interessante sarebbe indagare sull’origine di un nome che * potrebbe indicare una provenienza geografica (*Labi- + suffisso etnico -incus) ma che, anche a causa della mancanza del gentilizio, più probabilmente ha un’origine celtica o ligure.
Meno probabile una coincidenza (sarebbe sorprendente in effetti se fosse tale, sia per la lontananza fisica e temporale tra i due ritrovamenti sia per una vicinanza così improbabilmente diuturna tra le due famiglie) con un gentilizio etrusco Lapicane (da un cognomen Labicanus, traducibile con “proveniente dalla città di Labicum“) che risulta appartenente al marito di una Larthi Sucus Rupsai: Marce Lapicane Turis (vd. ZUXU). I nomi di entrambi sono infatti incisi sotto il piede di un Piattello Genucilia di origine incerta del IV-III sec., ET Cr 2.131, Cerveteri. (Cit. “Prosopographia Etrusca“, di Massimo Morandi Tarabella, ed. L’Erma di Bretschneider).
Purtroppo il valore indicato è cumulativo e non consente di stabilire se un fondo fosse più grande dell’altro, ma la somma complessiva sarebbe notevole per terreni di collina (che si dovrebbero quindi ipotizzare come abbastanza estesi rispetto alle capacità lavorative dell’epoca e rispetto al valore medio dei fondi che si aggira sui 37.000,00 HS) ed è una delle più alte di tutta la TAV che nella maggior parte è occupata da fondi di modeste dimensioni.
Seguendo quanto esposto da questo sito http://www.fmboschetto.it/monete/Costo.html, se si potesse applicare anche alla pianura padana il valore che aveva uno jugero (2519,9 mq) in Campania al momento dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. (5.000,00 sesterzi per 1 jugero) e che conosciamo grazie al ritrovamento dei registri di un banchiere pompeiano, tale Lucius Caecilius Iucundus, otterremmo un prezzo alla pertica piacentina (762,0186 mq) non molto distante da quello che ha oggi in euro in media collina: 1.500,00 HS alla pertica (1 jugero 2519,9 mq : 1 pertica 762,0186 mq = 3,306 pertiche piacentine per fare uno jugero → 5.000,00 HS : 3,306 = 1.512,40 HS alla pertica). Dividendo ora il valore complessivo di 180.000,00 HS per 5.000,00 si ottiene una superficie di 36 jugeri, per complessivi 90.716,4 mq (2519,9 mq x 36 jugeri) cioè circa 120 pertiche piacentine (90.716,40 mq : 762,0186 mq), 60 pertiche (circa 4,5 ettari) per ognuno dei due fondi se fossero stati di uguale estensione.
Secondo quanto sostiene invece Domenico Russo in Silva Mala, 1984, il valore dello jugero sarebbe stato compreso tra i 1.000,00 ed i 2.500,00 HS, portando quindi da un massimo di un quintuplo ad un minimo di un doppio i valori dei conti sopra riportati. Ma il valore della nuda terra in sé non ci dice nulla sulla redditività che ovviamente dipendeva dal tipo di coltivazioni e di allevamenti condotti sul fondo e dall’abilità nella sua conduzione da parte del proprietario e di chi ci lavorava.
Chi si è preso la briga di confrontare il valore del sesterzio del secondo secolo dopo Cristo con l’euro (compito non facile) sostiene che il suo valore poteva aggirarsi tra il rapporto di 1 HS a 2 € e di 1 HS a 10 €, il che significa un valore fondiario compreso tra i 360.000 € e 1.800.000 € ! …mediamente 1.080.000 €: una cifra considerevole anche se è difficile capire quanto potesse valere il terreno agricolo in termini di mercato riferiti alla composizione pedoclimatica ed alla produttività di quei tempi, mentre è certo che per un cittadino romano medio del II sec. si sarebbe trattato di un valore enorme (lo stipendio giornaliero di un legionario di fanteria era di circa 4 sesterzi al giorno e molti erano costretti a viverne al di sotto).
Nella prossima pagina ZUXU cercherò di argomentare la corrispondenza tra il gentilizio latino Succonius che fornisce il prediale al fundus succonianus ed il gentilizio etrusco Zuχu/Sucu.