ZUCCA
Un frutto.
Dato per certo che il nostro cognome derivi dal nome dell’ortaggio con aggiunta dell’accrescitivo -one per somiglianza fisica o concettuale del capostipite, restano da indagare le origini storico-geografiche del vegetale, i suoi utilizzi come possibili motivi per i quali la parola che lo identifica abbia assunto ciascuno dei significati traslati o allegorici che ha, il suo simbolismo nella storia ed i miti ad essa correlati nel mondo e, infine, l’origine etimologica delle parole che la significano presso i vari popoli e culture.
Come già anticipato in IPOTESI SOPRANNOMINALI, la specie di zucca alla quale si riferisce l’uso metaforico del termine è quasi certamente la lagenaria siceraria, cioè la zucca a fiasco, o zucca a bottiglia (eng. gourde, calabash; fra. gourde, calebasse; deu. Flaschenkürbis, Kalebasse; esp. mate, calabaza de peregrino; por. porongo, purunga, cabaça, calabaça; mag. lopótök; suo. pullokurpitsa, kalebassi; hrv. obična tikvica; eus. edan-kuia = zucca dell’eden; pol. tykwa pospolita; rus. Горля́нка Gorlyanka).
Infatti, ai tempi in cui si trasformò in cognome (i suoi significati come soprannome sono necessariamente ancora più antichi), le specie dei generi benincasa (proviene dal sud-est asiatico), coccinia (proviene dall’Africa sub-sahariana), luffa (proviene dal nord-Africa ed era conosciuta già dal egizi) e soprattutto la più diffusa di tutte, la lagenaria, erano le uniche conosciute nel vecchio continente, l’unico modello a cui ci si sarebbe potuti ispirare per fare il parallelo con una qualche caratteristica fisica o caratteriale, mentre quelle del genere cucurbita (il tipo di zucca che si usa per la ricorrenza di Halloween) arrivarono in Europa provenienti dalle Americhe dopo il 1492.
Origini
Data la sua diffusione pressoché ubiquitaria e la sua lunghissima storia antropica, le lagenaria spp. sono state oggetto di diversi studi di varia natura tesi a cercare di scoprirne le origini perché, trattandosi probabilmente del primo vegetale coltivato dall’uomo, avrebbero potuto fornire indicazioni sui primordi della domesticazione di vegetali per selezione delle sementi e sui percorsi seguiti dalle popolazioni umane che colonizzarono progressivamente il mondo uscendo dall’Africa.
Uno dei più interessanti è “An Asian origin for a 10,000-year-old domesticated plant in the Americas“, di David L. Erickson, Bruce D. Smith, Andrew C. Clarke, Daniel H. Sandweiss e Noreen Tuross, PNAS del 20/12/2005, in cui si descrivono le modalità con cui la pianta di lagenaria si sarebbe potuta diffondere. Stanti le sue presenza e domesticazione molto antiche evidenti in molti reperti archeologici sparsi tra Africa, Asia ed Americhe, con questo studio si è cercato di capire dove sia incominciata la loro selezione e come sia avvenuta la dispersione dei semi. A causa dell’esistenza di varietà colturali proprie dell’America, viene riferito che in un primo tempo si ipotizzò che i frutti ed i semi della lagenaria potessero dall’Africa aver raggiunto le Americhe grazie ad alcuni esemplari finiti nell’Atlantico casualmente e trasportati dalle correnti che effettivamente si muovono in direzione ovest, ma l’assenza di un precursore non addomesticato, mai rilevato in alcuno dei due continenti fino al 1992, aveva impedito fino a quel momento di stabilire con certezza che non avesse seguito il percorso inverso o altri percorsi attraverso l’Asia. Si tiene quindi conto di un altro studio del 2004, che riferisce della scoperta di una lagenaria selvatica in Zimbabwe (L. Zimbabwe collection) avvenuta nel 1992 (“DISCOVERY AND GENETIC ASSESSMENT OF WILD BOTTLE GOURD [LAGENARIA SICERARIA (MOL.) STANDLEY; CUCURBITACEAE] FROM ZIMBABWE“, Decker-Walters DS, Wilkins-Ellert M, Chung SMM, Staub JEE – 2004). La scoperta di questa varietà, sebbene non si tratti di un progenitore diretto di quella domestica, ha consentito di stabilire una direzione di diffusione più probabile dall’Africa al sud America, ma ancora non era chiara la modalità. Il frutto selvatico africano infatti non ha la caratteristica di indurire la scorza fino al punto di renderla impermeabile in seguito alla sua essiccazione, spontanea o indotta che sia, e quindi, una volta maturo e separato dalla pianta, marcisce e si sfalda liberando i semi. Questo fatto ha consentito di capire che il frutto selvatico non sarebbe mai riuscito a superare indenne gli almeno 7-9 mesi di galleggiamento necessari per giungere intatto dalle coste dell’Africa a quelle del sud America, ma avrebbero potuto farlo i semi grazie alla loro leggerezza ed al guscio coriaceo. Nonostante questa possibilità, l’esame del DNA di frammenti archeologici paleoamerindi, condotto dagli autori dello studio, consente loro di affermare che la lagenaria spp. amerindia era geneticamente più affine alle varietà asiatiche che non a quelle africane, e che la sua domesticazione sia avvenuta autonomamente da quella delle altre varietà presenti nel vecchio mondo. La ricostruzione derivante da questo studio perciò considerava meno probabile la diffusione naturale transatlantica, ma restava da capire il percorso della lagenaria fuori dall’Africa, a questo punto più probabilmente legato alle migrazioni umane attraverso la Beringia o, dalle coste nord-orientali dell’Asia, al galleggiamento dei semi per via transpacifica fino alle coste occidentali del nord America (secondo i redattori dell’articolo più breve di quello transatlantico per la velocità delle correnti).
Il criterio per poter distinguere una lagenaria addomesticata da quella selvatica è lo spessore dell’esocarpo: il domestico ha uno spessore più che doppio (3-7 mm contro 1,3-1,4 mm) tale per cui il frutto diventa resistente (è stata dimostrata sperimentalmente una durata di 7 mesi al galleggiamento in acque salate) e, in virtù di tale resistenza, leggerezza ed impermeabilità, interessante per l’utilizzo di trasporto di liquidi e solidi per l’uomo nei suoi spostamenti ed attività. Questo spessore sarebbe progressivamente aumentato attraverso la selezione operata dall’uomo proprio per ottenere le caratteristiche ideali per le funzioni cui venne destinata tradizionalmente, e che ancora sussistono presso molti popoli. Ma il motivo per cui la domesticazione amerindia dev’essere partita da una varietà selvatica locale è anche un altro: un ispessimento così notevole della buccia, ed il suo conseguente indurimento, avrebbe reso difficile la dispersione naturale dei semi, i quali avrebbero quindi avuto bisogno dell’intervento umano per germogliare. Le conclusioni sono a favore di una domesticazione avvenuta prima in Asia circa 11.000/12.000 anni fa (le tracce più antiche rinvenute nel sud-est asiatico), il successivo trasporto di semi o di una specie selvatica da parte delle correnti del nord Pacifico, o di una varietà già addomesticata grazie alle migrazioni umane che, giunte in America centrale, avrebbero ripreso la coltivazione o avrebbero domesticato le piantine i cui semi fossero giunti via mare. Ed è proprio a Guilá Naquitz Cave, in Messico, che è stato ritrovato un frammento di lagenaria domesticata di circa 10.000 anni fa.
Resta però il problema di capire quali semi abbiano attraversato il pacifico settentrionale per giungere in America, germogliare e produrre una varietà selvatica americana da cui gli amerindi abbiano poi tratto varietà domestiche. Infatti tali semi galleggianti, per le ragioni elencate sopra, avrebbero dovuto provenire da una qualche varietà selvatica aborigena dell’Asia con la buccia ancora sottile, l’Africa è effettivamente troppo a sud e troppo lontana, ma l’unica varietà selvatica finora è stata trovata solo in Zimbabwe e le tracce di domesticazione più antiche dell’Africa risalgono ad alcuni frammenti di solo 4000 anni fa trovati in sepolture egizie (la prima testimonianza della sua presenza rimane il rapporto del 1884 di una zucca in bottiglia recuperata da una tomba della 12a dinastia a Tebe): le modalità di diffusione da Africa ad Asia (o viceversa) restano quindi per ora ignote.
“…
Le differenze morfologiche e genetiche tra le cultivar di zucca a bottiglia odierne africane e asiatiche sono abbastanza sostanziali da sostenere la designazione di due sottospecie, Lagenaria siceraria ssp. siceraria e L. siceraria ssp. asiatica , suggerendo un’antica diffusione verso est della specie al di fuori dell’Africa e il conseguente isolamento genetico dei sottogruppi africani e asiatici. Le modalità di diffusione della zucca bottiglia fuori dall’Africa rimangono sconosciute, ma è stato dimostrato che i frutti galleggianti delle piante domestiche producono semi ancora vitali dopo aver galleggiato in acqua di mare per più di 7 mesi, e spesso è stata suggerita una diffusione precoce della specie da parte delle correnti oceaniche.” (traduzione mia)
Per questo motivo, in uno studio successivo, “Transoceanic drift and the domestication of African bottle gourds in the Americas“, Logan Kistler, Álvaro Montenegro, Bruce D. Smith, John A. Gifford, Richard E. Green, Lee A. Newsom, and Beth Shapiro, PNAS 25/02/2014, si criticano i risultati dello studio precedente: le modalità di raccolta del DNA dei reperti archeologici delle lagenaria ritrovate nelle Americhe vengono cambiate ed i risultati letti secondo un metodo diverso. Da questa rianalisi si è giunti alla conclusione che, per quanto riguarda il continente americano, la linea di derivazione (filogenesi) dal progenitore delle varietà di lagenaria amerinde è più simile a quella che porta anche alle sottospecie africane (lagenaria siceraria ssp. siceraria) che non a quelle asiatiche (lagenaria siceraria ssp. asiatica), ribaltando così le conclusioni dello studio precedente. A causa di ciò l’ipotesi di domesticazione delle varietà americane è da imputare ad un trasporto per galleggiamento transatlantico (come già rilevato nello studio precedente, ma dato come meno probabile) a questo punto non del frutto integro, ma solamente dei semi del precursore selvatico africano (la durata della germinabiltà dopo lunga immersione in acqua salata è stata sperimentalmente verificata) con successivo approdo sulle coste e dispersione da parte di animali o uomini che se ne fossero cibati. Una volta giunti sulle coste dell’America meridionale, i semi sarebbero in qualche modo germogliati e le nuove piantine scoperte dai popoli che nel frattempo erano giunti dall’Asia attraversando lo stretto di Bering, ed i nuovi semi da esse derivati domesticati nelle stesse zone del centro America da cui sarebbero partite le domesticazioni anche di mais, patate etc. Questo studio giunge a queste conclusioni tenendo conto anche dell’improbabilità che le lagenaria venissero coltivate con successo da popoli asiatici costretti a passare attraverso regioni troppo fredde, come la Beringia, per lo sviluppo delle piantine, passaggio che ha richiesto sicuramente secoli, se non millenni; ed anche dalla giusta osservazione che presso i popoli artici le funzioni di trasporto di cibo e liquidi avviene tutt’ora attraverso l’utilizzo di contenitori realizzati in cuoio e pelle, mai con zucche a fiasco.
Nonostante queste acquisizioni, molto resta ancora da scoprire sul come si verificò il processo di dispersione della specie primordiale, che sicuramente diede origine alle varietà che ancor oggi vengono coltivate ma, qualsiasi siano state le modalità e la direzione di diffusione della lagenaria, sono evidenti l’antichità della sua coltivazione (i reperti asiatici datano almeno 12.000 anni fa) e l’importanza del suo utilizzo come contenitore per liquidi: probabilmente nessuna migrazione umana sarebbe mai stata possibile senza avere la possibilità di portare con sé una borraccia per fare scorta d’acqua e quindi la domesticazione dev’essere incominciata in tempi remotissimi, ben prima di quelli ricostruiti per i reperti archeologici finora rinvenuti ed anche dell’inizio dell’agricoltura,
Utilizzi
A riprova della sua utilità si può fare un elenco piuttosto lungo degli impieghi che nel corso dei millenni, prima dell’invenzione dei recipienti di pelle o di terracotta che ne avrebbero mutuato le forme, l’uomo è riuscito a ricavare da una materia prima così semplice:
“…
1. Per il 90% della nostra storia umana conosciuta sono state usate zucche, quasi solo zucche, per fare quasi tutto (per 200.000 anni del nostro tempo di evoluzione tecnologica)
2. Le zucche sono le più leggere tra i primi contenitori naturali (ben prima della terracotta): più leggere delle conchiglie di mare, delle corna di animali o dei pezzi di bambù rotti.
3. La zucca è stata usata per le cose più diverse di qualsiasi altro materiale:
A. Come cibo, quando è verde, prima che si secchi il guscio duro ed impermeabile. [anche per alimentazione animale: zucca da semi o dei maiali, n.m.].
B. Un prolungamento della mano per attingere acqua, raccogliere bacche, semi, qualsiasi cosa.
C. Un contenitore per il trasporto di liquidi, cibo, pietre, sementi, farine, sale, qualsiasi cosa.
D. Cestino di stoccaggio, per contenere foglie, realizzare un alveare, corde [ricavate da] di tralci della pianta adulta.
E. Un mestolo per raccogliere acqua, sangue animale, fango, etc.
F. Ciotole, bicchieri e tazze, per contenere e servire pasti e bevande. [la tazza per il mate argentino, parola guaranì che indica sia l’erba che il contenitore, n.m.].
G. Abbigliamento: per cappelli (in Africa, Asia e isole del Pacifico) ed astuccio penieno (in Papua, NG) fino ai tempi moderni.
H. Galleggiante, tenendolo in acqua (come ho visto ad Argungu, nel nord della Nigeria), legandolo al corpo o raggruppandone molti insieme per realizzare le zattere.
I. Ruote per carriole e carri (come ho visto nella costa settentrionale del Perù).
J. Strumenti musicali:
1) Maracas, con i semi stessi della zucca sbattuti e successivamente noccioli, con dentro mais essiccato o riso.
2) Tamburi, con o senza pelle di animale tesa su un’apertura.
3) Corni e flauti.
4) Liuti, banjo, koras, sitar e altri strumenti a corda.
5) Marimbas o xilofoni, con zucche poste sotto il legno o chiavi di bambù.
6) Kalimbas, o piano da pollice.
7) Shaker, con semi, perline o qualsiasi altra cosa infilata all’esterno.
8) Guiros, tubi con linee tagliate da raschiare con un bastone o qualcosa del genere.
9) Fischietti a forma di piccolo piccione, attaccati alla coda di uccelli per suonare in volo. E tanti altri. . . .
K. Creazioni artistiche: disegni, feticci, bambole, maschere, ornamenti.
L. Usi religiosi: per conservare pozioni magiche, raffigurare divinità o spiriti, che rappresentano la terra, la fertilità, le benedizioni, la buona fortuna, la salute, la fortuna, ecc.
M. Pipe, con l’aggiunta di una depressione per bruciare qualcosa per inalare il fumo [narghilè, bong per fumare cannabis, n.m.].
N. Chirurgia cerebrale: gli antichi in Perù usavano pezzi di zucca per sostituire pezzi rotti o cranio, involucro del cervello.
…”
“The Gourd – Lagenaria Siceraria, Most Important Plant in All of Human History“, Raymond Konan, Orlando, Florida, USA, 2 dicembre 2017 ©
traduzione mia con aggiunta di qualche nota mia [n.m] tra le parentesi quadre.
Questo elenco compare in un sito americano, il American gourd society, che è nato per tutti gli appassionati di questo frutto e degli oggetti che da esso si possono ricavare. Oltre a tutte queste funzioni, bisogna ricordare altri quattro utilizzi legati alla medicina:
1. La buccia di alcune varietà contiene sostanze medicinali ed i semi hanno proprietà antibiotiche che, in alcuni casi, possono diventare anche tossiche.
2. Coppette che anticamente servivano per praticare il salasso.
3. Contenitore per essenze, pozioni e medicine.
4. Peretta per clisteri (esempi in Congo).
Significati
Nonostante tutti questi usi e l’importanza che ha rivestito per millenni, la zucca è rimasta sempre uno degli oggetti più umili di cui l’uomo si sia circondato ed il fatto che, per la sua forma, sia stata paragonata in primo e quasi esclusivo luogo alla testa umana è un’ulteriore prova della sua silenziosa, direi quasi dissimulata, indispensabilità. Come la testa può contenere molti diversi tipi di mentalità, così la zucca può contenere molti diversi generi di prima necessità, ma solo se prima viene svuotata. Se rimane vuota perde ogni valore così come, se ripiena, può esser accostata ad una cornucopia, non a caso anch’essa derivata, secondo una versione del mito, da un corno (pie. *ḱerh₂- = testa, corno, da cui deriva anche lat. cranium e gra. κρανίον) della capra Amaltea, dispensatrice inesauribile di grandi ricchezze.
Le proprietà determinanti della lagenaria, nella sua funzione di contenitore, sono dunque: durezza, impermeabilità, capacità e leggerezza.
Se riferito a caratteristiche fisiche, lo zuccone è quindi semplicemente un individuo dalla testa un po’ più grossa della proporzione tra essa ed il corpo, classicamente intesa tra 1 a 7 ed 1 a 8; oppure al suo aspetto completamente calvo (calva, che in latino significa anche teschio), simile appunto ad una zucca essiccata. Se fosse questo il caso, vale la pena ricordare che la testa rasata completamente (tonsura paolina) o solo parzialmente (tonsura pietrina) era tipica di monaci e chierici e che quindi, in qualche caso, l’epiteto di zuccone potrebbe essere stato riservato anche a qualcuno di essi.
Se riferito a caratteristiche della personalità, l’epiteto derivato deve quindi il suo significato all’astrazione metaforica della durezza ed impermeabilità dell’epicarpo: testardaggine, caparbietà, sordità, chiusura ma anche tenacia, perseveranza; della vuotezza: povertà, ignoranza, ma anche capacità recettiva, umiltà; della leggerezza: superficialità, ma anche spontaneità, simile a quella di chi è senza seri pensieri e non ha nulla da nascondere. Ma se queste caratteristiche sono senz’altro alla base dello spregiativo ed irrisorio epiteto zuccone (a cui è dedicato anche un sostantivo che ne indica la qualità: zucconaggine) che, con il suffisso accrescitivo, delle coppie di opposti sopra citati indica e sottolinea quelle peggiori esagerandone l’importanza rispetto alle migliori, potrebbero non esserlo per il più scherzoso zucca, che potrebbe esser riferito solamente alla somiglianza con una testa pelata e lucida, come la superficie di una lagenaria seccata. Zuccone a volte, nel linguaggio scherzoso o dialettale, può essere usato come sinonimo di capoccione nella sua accezione di cervellone, persona dotata di grande intelligenza e cultura.
Sempre a proposito dei modi di dire bisogna ricordare che un’esclamazione di deciso diniego molto usata in tempi passati, oggi molto meno, era “le zucche!” (Promessi Sposi, cap. VII), il cui significato era assimilabile al più attuale “col cavolo!”, sul quale riporto un interessante articolo del 17 Gennaio 2012 di Giancarlo Macaluso, pubblicato sul sito “www.cronachedigusto.it“:
“Che cosa indichi il cavolo nel linguaggio comune figurato non ve lo stiamo a dire.
Se a qualcuno dite che è una testa di cavolo gli state usando una cortesia, visto che meriterebbe un’altra parola, ben più esplicita ed efficace. Questo dimostra comunque che mantiene una sua raffinatezza se gli tocca fare le veci del più triviale cazzo. Povero cavolo, verrebbe da dire. Bistrattato, maltrattato, usato a sproposito, relegato all’infamia del linguaggio da suburra.
“Il termine deriva dal greco kaulos – spiega Francesco Lo Piparo, filosofo del linguaggio, professore all’università di Palermo -. Significa fusto, stelo”. Più chiaro di così. Ma anziché assurgere al rango di divinità, è caduto nella affollata rimessa delle parole da evitare. I modi di dire legati all’ortaggio da sdoganare sono molti. Anche la simbologia si è occupata di esso. Basti pensare che nell’universo onirico degli antichi (ma anche dei moderni, quelli che ci credono almeno) il sogno animato dal cavolo implicava cattivo presagio, malumore tristezza, caduta della felicità. E questo perché il rango della pianta era (era?) ritenuto di scarsissimo profilo. Probabilmente anche il suo non del tutto gradevole odore ha contribuito al declassamento inesorabile da quella misteriosa agenzia di rating del gusto attiva da secoli.
Fare una “cavolata” significa commettere una sciocchezza, al pari di portarla al tavola. Il Nostro è per definizione incongruo, infatti di una cosa fuori posto si dice che ci sta “come i cavoli a merenda”; un’azione maldestra si porta appresso l’immancabile “che cavolo fai?”; una parola inopportuna un bel “fatti i cavoli tuoi” e le responsabilità che non si possono schivare diventano “cavoli amari”.
Il suo legame con il mondo sessuale, comunque, ha a che fare sulle presunte capacità afrodisiache del cavolo. Nel mondo latino l’infuso di foglie era consigliato ai maschi lievemente spenti. Provateci, non si sa mai. Si presume che curasse anche una quantità di malattie. Qua e là si legge che un medico greco di nome Crisippo (IV secolo a.C.) abbia dedicato un intero libro al cavolo che peraltro era considerata una pianta sacra, nata dal sudore di Zeus.
Da bambini, infine, ci hanno insegnato che i neonati si vanno a prendere sotto i cavoli. Forse perché la Brassica oleracea, sferica, spunta dalla terra madre come la testa di un bimbo dal grembo materno. Può darsi.
Fatto è, in conclusione, che questi benedetti cavoli in tutte le varietà che conosciamo hanno finalmente bisogno di essere promossi, di resuscitare dal triste limbo in cui sono caduti. Vanno riscoperti e mangiati. Evitando accuratamente “i cavoli amari”.”
Il fatto che, oltre alla rapa, zucca e cavolo abbiano entrambi una certa somiglianza con una testa e che questa, a sua volta, nel linguaggio popolare sia associata al membro virile, spiega bene questo genere di espressioni idiomatiche e la loro valenza. Inoltre la prima, se opportunamente anagrammata, la seconda, se si considera la sillaba iniziale, dissimulano piuttosto bene la parola più volgare, ingentilendone l’espressione per le situazioni in cui sia necessario averne il pudore.