ITALIANO ZUCCA: UN’ETIMOLOGIA IMPOSSIBILE?

Rosa Ronzitti Università di Genova, Romance Philology, vol. 68, Fall 2014, pp. 385–96. DOI 10.1484/J.RPH.5.107643 

1. L’impressione di dilettantismo che talora suscita l’etimologia in chi non abbia conoscenza e pratica del metodo comparativo-ricostruttivo aumenta allorché per etimi difficili vengano proposte spiegazioni che divergono, anche sensibilmente, da dizionario a dizionario, spesso nei termini di improbabili escamotages quali l’incrocio, la metatesi e tutta una serie di deformazioni fonetiche che, capitando a proposito, riconducono la parola in questione a un antecedente abbastanza plausibile e sicuramente noto (essendo la semantica, per parte sua, soggetta a passaggi ancor meno rigorosi). Come si è già avuto occasione di scrivere in lavori pregressi (Borghi e Ronzitti 2005; Ronzitti 2008, 2011), intendiamo con “etimi difficili” quegli elementi lessicali in uso nelle lingue moderne che siano privi di antefatti evidenti nel proprio lessico storico. Per esempio, allorché né il latino o, in subordine, il greco, il germanico, lo slavo e l’arabo servano a spiegare l’origine di parole italoromanze, né lo facciano i sostrati ipotizzati o attestati per i singoli dialetti, entra in gioco la possibilità di ricostruire, tramite radici (o ancor meglio interi lessemi) presenti in altre lingue indoeuropee, antecedenti scomparsi. Se supponiamo che la parola in questione tragga origine dall’asse genetico indigeno (in questo caso il latino), pur essendo emersa solo in epoche recenti, disponiamo allora di una procedura i cui risultati sono sottoponibili a falsificazione, prerequisito essenziale di ogni discorso scientifico. L’etimologia, infatti, può e deve sempre essere impostata come una scienza, dal momento che si basa in primo luogo sulle leggi fonetiche, cioè sull’evolversi dei fonemi secondo esiti che variano sì da lingua a lingua, ma sono tendenzialmente regolari. Deviazioni ad hoc prive di sicuri riscontri sono normalmente da evitare e, in ogni caso, di qualsiasi irregolarità introdotta per dar ragione di un etimo si deve offrire una prova migliore dell’alternativa storico-evolutiva che la glottologia mette a disposizione. Analogamente, allorché si postula senza fondata ragione un’etimologia per prestito,1 questa verrà in subordine rispetto all’ipotesi di un antecedente omogenetico sommerso. Pare infatti davvero riduttivo, una sorta di “pregiudizio filologico”, formulare etimi soltanto sulla base di ciò che è attestato, vale a dire solo su una parte del patrimonio lessicale di una lingua, la cui stesura scritta avviene (sempre ammesso che avvenga integralmente) nel corso di molti secoli.
2. Seguendo questo percorso metodologico tentiamo di affrontare l’origine del fitonimo zucca (toscano [‘tsuk:a]), per il quale Battaglia (2002:1100) offre la seguente definizione:

Denominazione di alcune piante erbacee annue appartenenti al genere Cucurbita della famiglia Cucurbitacee (e in particolare della specie Cucurbita maxima), con fusti striscianti o rampicanti, grandi foglie ruvide e fiori gialli.

Il termine indica anche il frutto, da cui una serie di ben noti usi metonimici e metaforici (‘contenitore’, ‘testa’, ‘persona sciocca’ etc.). Una famosa terzina dantesca usa zucca con intenti ironici e in consonanza allo stile basso delle Malebolge (Inf. XVIII 124–126):

Elli2 allor, battendosi la zucca:
«Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe
ond’io non ebbi mai la lingua stucca».

Tuttavia l’attestazione più antica, che aggiorna i dati forniti dai dizionari etimologici (vd. infra), è nell’opera del notaio cremonese Girardo Patecchio lo Splanamento (inizio XIII sec.), un poemetto in nove parti costituito da proverbi attribuiti al re Salomone (89–90):

e laudarà tal omini, poc val mieg d’una çuca,
ke per malaventura i avrà dad qualqe puça.
(Contini 1960:564)3

Nel passo il fitonimo equivale semanticamente al pronome negativo neutro: poc val mieg d’una çuca significa infatti ‘poco val meglio di niente’. L’uso dell’antico notaio lombardo troverebbe riscontro nelle parole che il lombardo Manzoni pone in bocca a Renzo durante un colloquio con Agnese nei Promessi Sposi (cap. VII):

«Anderete voi giù al convento, per parlare al padre Cristoforo, come v’ha detto ier sera?» domandò Agnese a Renzo.
«Le zucche!» rispose questo: «sapete che diavoli d’occhi ha il padre: mi leggerebbe in viso, come sur un libro, che c’è qualcosa per aria; e se cominciasse a farmi dell’interrogazioni, non potrei uscirne a bene. E poi, io devo star qui, per accudire all’affare. Sarà meglio che mandiate voi qualcheduno».

Si tratta di un diniego confidenziale, forse affine al tipo Col cavolo!, in cui il nome del vegetale, preceduto dall’articolo determinativo, costituisce il no di Renzo alla domanda della futura suocera.4

1. Cioè dove non vi è reale necessità di introdurre nel lessico un esotismo.
2. Alessio Interminei da Lucca, condannato in quanto adulatore.
3. Soggetto è l’uomo falso e maldicente, il quale, in mancanza di meglio, loderà gli uomini che per sventura avranno dato qualche fastidio ai prodi, generosi e cortesi (citati nel distico precedente). Ringrazio per la segnalazione del passo il collega Giuseppe Marrani.
4. Usato da solo, al singolare o plurale, Cavolo/i! può dare enfasi alle affermazioni dell’inter locutore, ma Un cavolo!, con articolo indeterminativo, esprime rifiuto e ha quindi un uso simile a Col cavolo!. Lo stesso comportamento semantico-sintattico vale per il fitonimico cacchio, dal latino caculum, che indica originariamente il picciolo della vite (per i suoi impieghi come negazione cfr. ora Trifone 2012).

3. La letteratura esistente fa risalire zucca a una metatesi dal latino tardo cucutia, lessema attestato solo in Plinio Valeriano, all’accusativo plurale (De re medica V 42: omne legumen . . . quod restrictionem facit . . . cucumeres, cucutias, sorba).5 Ripetuta di volta in volta, questa etimotesi ha preso piede, seppur paradossalmente accompagnata da dichiarazioni di scorrettezza e scetticismo. Si veda nel séguito un rassegna che copre circa sessant’anni di storia linguistica:

   DEI V 4122 (la voce è curata da Carlo Battisti):
zucca f., XIV sec. [. . .] nella toponomastica Toscana dal 1028 . . . trasl. testa (Dante) [. . .]. Tanto ai nostri confini (friul. coce, piem. cusa; qui come nell’a. fr. col significato di testa), quanto dall’Umbria in giù (cózza; ma nell’Umbria s’usa di solito ciucca) esistono forme più corrette senza la metatesi sillabica, dal lat. cucutia zucca, con aferesi della sillaba iniziale. La forma piena è cocuzza, diffusa nel nostro Mezzogiorno.
   DELI V 1469–1470:
zucca, s. f., [. . .] (av. 1320, Crescenzi volgar.). Comunemente è fatta discendere dal lat. tardo (sec. VI d.C., Plinio Valeriano) attraverso una forma metatetica *(co)zucca (cfr. it. reg. merid. cocuzza), ma le difficoltà di questa derivazione hanno spinto alcuni studiosi a ricercare altre soluzioni: Alessio [. . .], rifacendosi al linguadoc. tüca ‘zucca’ (e ‘testa’), ricostruisce un lat. parl. *tūcca(m) da una base mediterr. *tucu-, *zuccu- ‘poggio, altura’.
   Etimologico 1352:
zucca, s. f., [1287] . . . formazione italiana di origine romanza: tratto da *cozucca, metatesi di cocuzza con aferesi della sillaba iniziale, lat. cŭcŭtĭam ‘frutto simile alla zucca’.
    ◆ L’etimo tradizionale resta il più probabile con l’unica difficoltà della metatesi, visto che l’aferesi della sillaba iniziale è pienamente documentata dai dialetti italiani: piem. cusa, abruzz. roman. e corso cozza [. . .].

Ma, di contro, si osservi quanto scrive il Prati (1969 [1951]:1067):

Non è possibile l’origine di zucca da cŭcŭtia (lat. tardo), donde cocuzza.

5. Naturalmente la rarità delle occorrenze scritte non dice niente sulla diffusione orale del termine.

Il caso pare davvero strano: da una parte avremmo esiti regolari e perfettamente spiegabili di cŭcŭtia(m) (la forma intera cocuzza/cocozza, meridionale, la forma aferetica cusa, con le sue varianti, settentrionale), dall’altra un curioso (e del tutto immotivato) impulso deformativo causerebbe l’inversione delle sillabe, dando come risultato zucca. La perplessità del Prati, ancorché non ulteriormente motivata, è quindi più che giustificata. Come ricorda il DELI, già l’Alessio, nell’ambito di un ricco studio onomasiologico del 1944, aveva tentato di superare le difficoltà fonetiche dell’etimo postulandone uno alternativo lungo le sue consuete linee di una ricerca lessicale “mediterranea”, che ricorreva a basi ampiamente oscillanti dal punto di vista fonetico:

Alessio (1944:41):
. . . linguad. tüco, tosc. zucca ed egeo σικύα risalgono verosimilmente ad un mediterraneo *TUCU-A ampliamento del tema *TUCU- che appare nell’egeo σίκυς e nel bulg. ant. tyky, tutti nel significato specifico di «zucca» o «cetriolo» entrambi della famiglia delle cucurbitacee.

Naturalmente, per spiegare l’affricata iniziale del toscano, Alessio ha bisogno di postulare l’inserzione di una /i/ tra /t/ e /ū/, sicché la base risulta infine *T(I)ŪCCA.
[66. tosc .. zucca, ecc., di area centro-settentrionale. Il confronto col fr. merid. tüco, gr. σικυα, κυκυον, sl. tyky ci porta a ricostruire un medit. *tūcua, donde posteriormente *tiucca. La forma italiana richiede un * tiucca con iu per u, che è documentato nell’etrusco: (146) ALESSIO, ASNSP. XIII 33 sgg. (dove si aggiunga la glossa di ESICHIO µωρα, συκαμινα, il corrispondente del lat. mōrum). Nota mia tratta da “VESTIGIA ETRUSCO-MEDITERRANEE NELLA FLORA TOSCANA“, G. Alessio, Studi Etruschi – 1948].
Prima di entrare nei dettagli di tale ipotesi (vd. in 6), intendiamo affrontare e risolvere una volta per tutte il problema fondamentale, ovvero quanto sia plausibile l’interpretazione che condurrebbe da cŭcŭtia(m) a zucca per aferesi della sillaba iniziale e metatesi sillabica. L’assunto di uno scambio sillabico ad hoc è già di per sé squalificante, ma si può provare che è anche falso secondo quanto rivela l’analisi della carta AIS VII 1372 intitolata La zucca (Cucurbita pepo).

4. La distribuzione areale mostra che l’Italia centro-settentrionale, fino all’estremo nord-est, ha ovunque il tipo zucca, presente in molte varianti fonetiche, la principale delle quali con la sibilante sorda iniziale. L’occlusiva velare interna, come ci attendiamo, è scempia a nord della linea Rimini-Senigallia, ove /ū/ è reso con [y] (cfr. il [‘syka] dei dialetti galloitalici, con [y] breve). L’area centro meridionale (compresa la Sicilia) continua invece dappertutto regolarmente cucutia(m) nelle forme cucuzza, cocozza e simili.6 Il tipo kusa (con varianti) appartiene solo al Piemonte orientale e alla Val d’Aosta (vd. infra). La Sardegna settentrionale ha zucca (con [ts]), che si incunea fino a Macomer (P 943), mentre in tutto il resto dell’isola predomina il tipo a raddoppiamento korkorí̅kra, korkorí̅γa (e altre varianti). Una piccola area del Piemonte occidentale, al confine con la Liguria, ha kugurda.

6. L’oscillazione tra /o/ e /u/ può dipendere rispettivamente da un antecedente con vocalismo breve (cŭcŭtia, così in genere ricostruito nei dizionari etimologici) o, rispettivamente, lungo (cūcūtia da *kou kou ti ā, con /ū/ per chiusura di dittongo a grado /o/). Del tipo cocuzza darà invece ragione la forma *ku kou ti ā, con il grado forte nella sillaba centrale e il grado zero in quella iniziale.

L’Alessio (1944:33) notava che il nome cucurbita, già nel latino letterario, prosegue in Sardegna e Romanìa, in quanto aree laterali o isolate più conservative: il sardo korkorí̅kra, infatti, continua il diminutivo CUCURBITULA(M);7 del pari, la Romanìa continua CUCURBITA(M) e CUCURBITELLA(M). Si vede subito, anche a un’analisi superficiale, che i due tipi maggioritari zucca e cucuzza coprono due aree in distribuzione complementare (grosso modo nord e sud dell’Italia) e che queste aree si trovano in contatto esclusivamente lungo una linea che passa all’interno del Lazio, vero e proprio confine isoglottico in cui si registrano gli unici due punti di compresenza:8

P 632 Ronciglione (Viterbo): a tsúkâ, kọkūtsa
P 654 Serrone (Frosinone): la gọgóćća, yo dzúkko.

Ora, una siffatta distribuzione, con l’incontro di zucca e cocuzza al limite dei due rispettivi areali, si può spiegare in un solo modo: ciascun tipo proviene da un antecedente diverso che ha avuto una sua propria diffusione e ha incontrato l’altro laddove tale diffusione si arrestava, altrimenti dovremmo ammettere che il medesimo antecedente ha dato luogo a due esiti sempre nettamente diversi tranne che in quei punti. Sventura ha voluto che i due tipi si somigliassero foneticamente e che un giochetto metatetico ben congegnato potesse ricondurre il più corto zucca al più lungo cucuzza. L’inerzia critica con cui tale spiegazione è stata accolta ha impedito di cercare per ciascun termine un’etimologia plausibile e ben motivata su entrambi i piani del segno.
5. Vorremmo quindi proporre per cusa, cucuzza e zucca tre etimi diversificati: i primi due collegati etimologicamente, il terzo facente capo a un’altra diversa radice.
5.1. Per quanto il piemontese <cossa> [‘kusa] (con [u] breve) si presti a essere interpretato come esito di un’aferesi9 (*kukutsa > *kəkusa e infine kusa), esso potrebbe in realtà derivare direttamente da una base *kutja. Ciò rovescia i termini in cui è posta di solito la questione: non forma aferetica da una forma doppia, bensì forma semplice del latino sommerso, della quale cucutia rappresenta la variante raddoppiata. 

7. Discussione dei passaggi fonetici in Wagner (1960:380). Sono da notare i sintagmi campidanesi donai, pigai korkoríkra per ‘dare un rifiuto in amore’ e ‘essere bocciato agli esami’, che ricalcherebbero le espressioni spagnole reciproche dar calabazas e llevarse/ recibir calabazas.
8. Tutte le province dell’AIS sono aggiornate alla ripartizione territoriale odierna.
9. Più precisamente di una sincope vocalica iniziale che provoca la scomparsa della prima sillaba.

Se è vero che cucutia emerge solo molto tardi (Plinio Valeriano è del VI-VII secolo d.C.), la sua formazione segue tuttavia un modulo protostorico ben noto e, naturalmente, l’età della prima attestazione significa poco o nulla. Tale modulo, che prevede il raddoppiamento della sillaba radicale, si riscontra in tutte le lingue indoeuropee e appartiene dunque alla fase comune.
5.2. Alla luce di questi dati, già il latino cucutia sarà forma raddoppiata del medesimo tema che dà il f. cŭtis ‘pelle, superficie, involucro’10 e ‘guscio di un frutto’ e così pure il tardo e raro n. cucutium ‘indumento, una specie di cappuccio’ (Trebellio Pollione, Claudius XVII 6) e ‘prepuzio’ (Dioscorides II 65). La tematizzazione in -a e -um sembra corrispondere a un criterio di differenziazione semantica. Si recupera per tutti questi lessemi un’ottima etimologia indoeuropea, ovvero la radice ampliata *(s)keu-t- ‘coprire, avvolgere’, alla quale cŭtis è del resto sempre stato ricondotto (Pokorny 1959:952). Dunque tanto la cossa ([‘kusa]) piemontese quanto la cocuzza dei dialetti meridionali trarrebbero origine, in ultima analisi, da una stessa base *kut- (rispettivamente semplice e raddoppiata) la cui motivazione originaria è quella di ‘involucro’.11 La glosse esichiane κύκυον, τὸ σικυόν, κυκύϊζα· γλυκεα κολόκυντα (discusse in Frisk 1970:704) o derivano dalla stessa radice, senza ampliamento dentale ma eventualmente con laringale (*(s)ku (H)-ku(H)-om), oppure dalla radice *keu- ‘rigonfiamento’ (*ku (H)-ku(H)-om, Pokorny 1959:592–594), che è pure una buona candidata dal punto di vista semantico.
5.3. Preliminare a ogni spiegazione su zucca è la sua analisi fonetica. La pronuncia [‘tsuk:a], si è detto, è fondamentalmente centrale (Toscana, Umbria, Marche), ma altrettanta se non maggiore diffusione ha il tipo basilettale con /s/ iniziale [‘suk:a]; sono pure attestate realizzazioni con [dz] e [tʃ]. La pronuncia con sonora [‘dzuk:a] percorre poi gran parte dell’Italia odierna. Si entra così nel cuore di un problema fonetico che fu accuratamente esaminato dal Hubschmid nel 1963, ma già affrontato da altri studiosi (p. es. Graur 1930, Michel 1955):12 laddove il latino ha una forma iniziante con /s/, i dialetti italoromanzi possono mostrare un ventaglio di esiti. Si vedano i seguenti esempi:13

latino sabaia ‘bevanda d’orzo degli Illiri’ > italiano żabaione (ż = [dz]), genovese sabajôn, veneziano zabagiòn (z = [ts]), bolognese żabajôn etc.

10. Il piemontese testimonia l’originaria brevità di /u/, mentre l’italiano cute è un cultismo.
11. Diversamente, il tipo còzza ‘mìtilo’ è derivabile dal latino cochleam ‘chiocciola’ (da cui anche la variante còccia ‘testa’, ben attestata nei dialetti meridionali).
12. Si vedano anche i successivi contributi di Maria Luisa Porzio Gernia (1973) e, con una prospettiva allargata alle lingue indoeuropee e alla ricostruzione, Vijūnas (2010).
13. Si adottano le grafie dell’autore. Dove è necessario viene fornita una trascrizione fonologica

Per la forma con nasale bilabiale interna si veda anche il tipo toscano o toscaneggiante ciambaglione ‘bevanda o brodaglia che si dà agli ammalati’; latino soccus ‘calzatura bassa indossata dagli attori’, diminutivo socculus (già in Plauto) > italiano zocco, zoccolo; piemontese (femm. pl.) sǫke, Rieti ciocculo etc. Ampiamente diffusa è anche la variante con iniziale sonora. Dal diminutivo femminile *zoccula proviene l’italiano centrale ciòcia, pl. ciòce, che può ulteriormente evolversi in un tipo con fricativa sibilante iniziale e centrale (per esempio il laziale meridionale šo¯̨́se /šo¯̨́se, registrato a Santa Francesca di Veroli, provincia di Frosinone, P 664 dell’AIS).

Quando non è presente un antecedente latino, potrebbe trattarsi di «vorromanisches Sprachgut» (Hubschmid 1963:388): tali sarebbero i casi di zappa e zampa, che lo studioso tedesco considera varianti di una stessa parola. Più precisamente, una dissimilazione della geminata doppia in zappa avrebbe portato al tipo zampa. La differenziazione semantica fra ‘attrezzo agricolo’ e ‘gamba di un animale’ non è sempre rigorosa (infatti il piemontese sampa significa ‘bidente’, il calabrese sampa ‘zappa’, il còrso zampà ‘zappare’). Anche in questo caso la pluralità di realizzazioni fonetiche oscilla fra [s] (cfr. il già citato sampa e, al di fuori dell’italoromanzo, il medio francese sappe ‘zappa’), [dz] ([‘dzampa], diffuso ovunque in Italia), [tʃ] (napoletano ciampa [‘tʃampə]) e [ts] (toscano [‘tsampa]).
5.4. Il ricco materiale del Hubschmid, che individua almeno diciassette gruppi di allotropi (senza contare gli esempi sparsi), conferma che la resa di /s/ iniziale latina o prelatina era molto più varia di quanto si potrebbe credere. Sulle origini di tale fenomeno occorrerebbe interrogarsi, poiché non è da escludere che le varie realizzazioni fonetiche fossero già diffuse, ancorché non registrate dalla grafia.14 Torneremo su questo punto nelle conclusioni del lavoro. Può sembrare strano che manchi tra gli esempi forniti dallo studioso tedesco proprio la parola zucca: di ciò è difficile dare spiegazione, dato che le oscillazioni della consonante iniziale la farebbero rientrare appieno nella casistica sopra delineata, a meno che l’ipotesi di un’origine mediterranea avanzata dall’Alessio abbia fatto uscire zucca fuori dall’orizzonte della ricerca hubschmidiana. Il lessema deve però essere incluso in questa serie oscillatoria, poiché presenta varianti con [s], [ts], [dz] e [tʃ]. Queste ultime sono addensate nell’Italia nordorientale, ai punti 332 (Faver, provincia di Trento), 333 (Cittadella, Viarago, provincia di Trento), 326 (Claut, provincia di Pordenone), 328 (Tramonti di Sotto, provincia di Pordenone), ma probabilmente anche altrove: si ricordi quello che dice il Battisti nel lemma del DEI prima citato: «nell’Umbria s’usa di solito ciucca». La variante con affricata postalveopalatale sorda esiste poi indipendentemente ed è realizzata nell’aggettivo ciucco ‘ubriaco’, cioè ‘imbevuto di liquido’.

14. “Das klassische Latein kennt die Anlaute ts- und tš- nicht oder bringt zum mindesten ein vulgäres ts- in der Schreibung nicht zum Ausdruck” (Hubschmid 1963:447).

Ci chiediamo se questa omonimia sia casuale o se invece il fitonimo zucca e l’aggettivo ciucco, la cui etimologia non è mai stata chiarita in maniera convincente, non provengano entrambi da un tema aggettivale *SŪCCU/-A ‘pregno, pregna di liquido’. La specializzazione semantica andrebbe di pari passo con quella morfologica: il femminile *SŪCCA indicherebbe il frutto ricco di liquido, mentre l’aggettivo *SŪCCU la qualità dell’ubriachezza. Esiste qualche indizio circa l’esistenza effettiva della base: in latino troviamo il sostantivo della seconda declinazione sūcus/sūccus15 ‘succo, umore’, che risale senza dubbio alla radice indoeuropea *seu(H)- ‘succo, umido’, verbale ‘spremere il succo’ (Pokorny 1959:912–913).
5.5. La parola latina con velare semplice sūcus può venire da *se/oukos o *s(o)uHkos (*He*-ko- sono suffissali) e dà il tipo galloitalico (italiano settentrionale) sugo, mentre quella con geminata, che viene genericamente attribuita al “latino tardo” e continua in italiano come succo, necessita di una trattazione più approfondita.
5.5.1. L’origine delle occlusive geminate romanze rappresenta infatti un fenomeno non meno controverso di quello delle affricate iniziali. È noto che il protoindoeuropeo non possedeva geminate (almeno al livello diastratico alto), mentre gli idiomi storici ne mostrano in abbondanza: per questo sūccus non dovrebbe provenire direttamente da una forma con velare doppia, che si sarebbe scempiata nella lingua comune.16 Per l’Indoeuropa occidentale (latino, italico, celtico e germanico) il problema è stato trattato a più riprese secondo due prospettive radicalmente diverse: una parte degli studiosi considera il fenomeno di origine espressiva; un’altra parte, prevalentemente di scuola tedesca, vede nei raddoppiamenti consonantici l’assimilazione di nessi protoindoeuropei. Artefici di questo secondo indirizzo furono Hermann Paul (1880) e Friedrich Kluge (1884), il quale lo sviluppò con particolare riguardo al passaggio dalla protolingua al germanico comune; Whitley Stokes (1893) ed Ernst Zupitza (1900) si occuparono del celtico;17 Francis Wood (1926) propose uno schema interpretativo basato sul medesimo principio dell’assimilazione per tutto l’indoeuropeo occidentale e il greco. La scuola espressiva, che è invece prevalentemente francese, partendo da alcune riflessioni del Meillet (1928:166), trova un punto fermo, ma ormai datato, nella monografia di Graur (1929) per il latino e Martinet (1937) per il germanico.18 Il più recente volume di Stefania Giannini e Giovanna Marotta (1989)ha inserito la questione fonologica in un quadro sociolinguistico.

15. Sulla quantità della vocale radicale si veda in 5.5.1.
16. L’incontro tra due consonanti identiche produceva scempiamento o, talvolta, mutamento di uno dei due fonemi (p. es. */tt/ > /st/ o /tst/ secondo le diverse aree dell’Indoeuropa).
17. Lühr (1988) e Kroonen (2006) sono fra le rassegne più recenti sulla questione.
18. Il fenomeno è stato studiato anche da un punto di vista più generale, come procedimento non esclusivamente infantile o basso, bensì mirato ad ottenere effetti variati di stile, da studiosi del calibro del Bertoldi, Vossler e Fubini. Si vedano in proposito le interessanti annotazioni di Carla Schick (1960:77–78).

La cosiddetta espressività sarebbe un tratto di marcatezza sull’asse diastratico e diamesico, ragion per cui l’allungamento consonantico, interpretato come un meccanismo per caricare le parole di connotazioni aggiuntive rispetto alla loro funzione neutra e referenziale, potrebbe essere stato assunto stabilmente nel sistema a causa della tendenza, diastraticamente bassa e fonostilisticamente connotata, a stabilire per il latino della alltägliche Umgangssprache una struttura prosodica isocronica secondo la quale la sillaba di tipo CV̅ equivaleva a quella di tipo C:. In tal senso andrebbero lette le alternanze come būca ~ bŭcca, cūpa ~ cŭppa, bāca ~ băcca. Circa la sillaba extralunga V̅C: già il Weinreich (1958:18ss.) osservava che la tendenza era ad “alleggerirla” tramite l’abbreviamento della vocale (mītto > mĭtto) o della consonante (cāssus > cāsus), un fenomeno puntualmente rilevato dai grammatici latini a partire dall’epoca imperiale (Giannini e Marotta 1989:263). La coppia sūcus/sūccus non rientra però in tali alternanze: essa mantiene stabilmente la vocale lunga anche nella forma con geminata, giacché non vi sono continuatori di tipo *sócco, che presupporrebbero sŭccus, nelle lingue romanze con vocalismo eptafonematico. Il Väänänen (1974:127) parla proprio per sūccus di lunga “anormale”. Occorre quindi chiedersi quanto sia antica e che origine abbia la forma sūccus: i dizionari etimologici e lessicografi ci parlano concordemente, ma senza ulteriori specificazioni, di un lessema latino tardo, dal quale traggono origine tanto l’italiano succo quanto le varietà galloromanze meridionali, che non mostrano mai /g/ intervocalico, derivabile, a differenza di /k/ < /kk/, da una scempia (cfr. l’italiano settentrionale sugo): l’aggettivo provenzale sucos ‘succoso’, derivato di suc, è diagnostico al riguardo (FEW XII:391).19 Sembrano percorribili due diverse strade esplicative: o quella di un’assimilazione, avvenuta nel latino arcaico, che abbia dato la sillaba extralunga V:C:, oppure quella di un’assimilazione avvenuta nel protoromanzo a partire da una base trisillabica con vocale breve interna caduta per sincope. La prima ipotesi è ammissibile in quanto la semplificazione di sillaba extralunga non è una regola ferrea e quindi la sequenza V:C: può permanere attraverso le successive fasi cronologiche del latino.20 Si parte dalla già citata radice *seu(H)- ‘succo, umido’, verbale ‘spremere il succo’ (Pokorny 1959:912–913), unita a un ampliamento consonantico.

19. Tali varietà, inoltre, mostrano anche forme con affricata e fricativa iniziale come sul territorio italoromanzo, p. es. nel tolosano chuc (/’ʃyk/) e nel dialetto di Bagnères (Pirenei occidentali) tšük (/’tʃyk/).
20. Altri esempi: pēnna, pīnna, favīlla, stīlla, stēlla, mīlle; le forme verbali in -V:sco come adolēsco e i piuccheperfetti come audīssem (Giannini e Marotta 1989:268). Interessante per la doppia velare occlusiva sorda preceduta da /ū/ è il latino volgare cūccus ‘tondeggiante’, rimasto come oronimo su tutto il territorio italiano. Un’indagine sistematica andrebbe condotta sull’etimologia delle numerose forme in -ucco/-ucca dell’italiano moderno.

I recostrutti protoindoeuropei per sūccus sarebbero *se/out-ko-,*se/oud-ko- o *se/oup-ko-, *se/oub-ko-,21 con le geminate velari formate dall’assimilazione di occlusiva dentale o labiale radicale alla velare sorda del suffisso.22 La seconda ipotesi richiede invece un protoromanzo *sūticu (da *soutikom) ‘succoso’ che dà *SŪCCU per sincope della vocale breve interna e successiva assimilazione di /tk/. Se però sūccus fosse davvero latino, esso dovrebbe preesistere al protoromanzo e quindi escludere *sūticu. Un accertamento filologico, ammesso che sia possibile, potrebbe dirimere la questione una volta per tutte. Considerando valida l’ipotesi del raddoppiamento espressivo tout court, infine, l’identità tra sūcus e sūccus non ha bisogno di ulteriori spiegazioni; tuttavia, la categoria dell’espressività presa in sé e per sé sembra ormai uno strumento esplicativo superato, a meno che non sia accompagnata da considerazioni sociolinguistiche e prosodiche come quelle svòlte nel volume di Stefania Giannini e Giovanna Marotta.
6. Cosa resta allora dell’ipotesi di Giovanni Alessio? La base mediterranea è, nel suo sistema, anaria, ovvero relitto di una fase linguistica sparita in seguito all’invasione “settentrionale” dei popoli indoeuropei. Si vede però, alla luce dell’etimotesi qui proposta, che mettere in campo un sostrato non attestato e di cui nulla si conosce diventa del tutto inutile e che le serie individuate dallo studioso sono in parte (dove presuppongono un’alternanza inedita tra occlusive e fricative iniziali) illusioni indotte dalla somiglianza di suono o di senso. Tra l’altro, l’occitanico tüco dispone di un’ottima etimologia indoeuropea se lo facciamo derivare dal celtico *tūkkos o *toukkos23 ‘frutto rigonfio’, a sua volta rispettivamente dal protoindoeuropeo *tuHknόs o *tou(H)knόs, derivato della radice *teu(H)- ‘gonfiarsi’ (Pokorny 1959:1080–1085); la stessa radice spiega anche l’antico slavo ecclesiastico tykъ ‘grasso’. Quanto al greco σίκυς, è evidente che /s/ non può provenire da sibilante indoeuropea, che sarebbe caduta lasciando un’aspirazione. Per esso si potrebbe puntare su *tuikus, derivato in *-ko- (ritematizzato in -u-) della radice *tuei- ‘tagliare’ (Pokorny 1959:1099), quindi il ‘frutto che si taglia’. Ancora aperto rimane il problema sollecitato dal Hubschmid nel suo importante lavoro circa la presenza di suoni affricati nelle lingue romanze: egli ha mostrato come alcune radici rese in latino con <s> iniziale abbiano esiti romanzi che variano dalla fricativa dentalveolare a vari tipi di affricate postalveolari, sorde e sonore. Poiché questa oscillazione non coinvolge sistematicamente tutti i lessemi inizianti per /s/, ciò potrebbe voler dire che lungo l’asse genetico latino esisteva già un’affricata sorda, sia pure non registrata graficamente e ristretta a uno specifico gruppo di lessemi, fra i quali rientrava anche zucca.

21. Sono effettivamente attestati gli ampliamenti in labiale, che danno luogo alla famiglia germanica di ‘zuppa’.
22. Altri esempi in Leumann 1963:152–153.
23. Il latino monottonga in /ū/ il dittongo del celtico.

Quanto possa essere antica tale affricata e se il suo sorgere sia dovuto a influssi di lingue non indoeuropee o genericamente prelatine come l’etrusco è una domanda cui deve essere ancora data una risposta risolutiva. Non sembra comunque assurdo postulare una sibilante affricata nel sistema consonantico del protoindoeuropeo, che appare tipologicamente squilibrato proprio per la mancanza di tale classe di suoni.

Abbreviazioni

AIS Jaberg e Jud 1928–1940
DEI Battisti e Alessio 1950–1957
DELI Cortelazzo e Zolli 1979–1988
Etimologico Nocentini e Parenti 2010
FEW von Wartburg 1966

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